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Da "tutto qui" all'eternità

“Improvvisamente, vedo apparire il Che: si ferma, guarda, e in quel momento scatto due foto, 1/250 di secondo e 5 di diaframma. Tutto qui”. Tutto qui: è così che si conquista l’immortalità?

Oggi, nell’anno 2006 dopo Cristo (più o meno), ho incontrato, per strada, un ragazzino che indossava una maglietta con l’effigie del “Che” Guevara: la solita, quella del “Guerrillero Heroico”, che gli ex sessantottini conoscono bene. Per un attimo, mi è sembrato di camminare, non in una normale via di Milano di questo incerto inizio di XXI secolo, ma nel tunnel della macchina del tempo. È una sensazione che, per un attimo, ti provoca del panico, come se, non solo il tempo, ma anche il cuore si sia fermato, e che superi subito, se vedi la cosa dal suo lato positivo: i ragazzini sono fenomenali, con quella loro capacità di rovesciare molte situazioni consolidate. Per un cinquantenne, oggi quel simbolo può avere un sapore di Bolivia e di sconfitta, un sapore di morte; per un ragazzino, invece, è un simbolo di vita, o di vitalità. E tutto per una “semplice” foto. Semplice? Vediamo di ragionarci un po’.
Circa trent’anni fa, mi capitò d’incontrare un giornalista e un fotografo tedeschi, inviati di un giornale popolare, durante un loro piccolo tour in Sardegna. Il fotografo mi raccontò che, in un paesino dell’interno, mentre fotografava un’assemblea di vecchi, era stato cacciato via con un lancio di pietre. Ne discutemmo: il fotografo conosceva bene la teoria del “furto dell’anima”, nel rapporto tra fotografo e fotografato presso certe popolazioni. Io, invece, e per rispetto della cultura contadina del mio paese, ne feci un caso, non di antropologia culturale, ma giuridico, e spiegai che il fotografo aveva semplicemente violato la privacy di quei vecchi. E che, di conseguenza, i quattro arzilli vecchietti avevano fatto bene a difendersi con il lancio di pietre: sai com’è, spiegai al fotografo, da noi la giustizia è lenta, ai vecchi resta poco da vivere, e perciò tendono ad accelerare i tempi...
Violazione della privacy o sottrazione del flatus vitae? Si dirà, sono opinioni opinabili, e ognuno difende il proprio orticello, la propria identità. Ma è vero che quando cominciò a diffondersi la fotografia nel nostro ambiente contadino, al fotografo veniva attribuito un potere magico, il potere di “sottrarre l’anima” con la fotografia. Insomma, la fotografia come sortilegio. Ma non tanto per l’operazione ottica in sé (fotografare è un’operazione meccanica), quanto per il fatto che il fotografo raccoglie nella propria macchina fotografica l’immagine del fotografato. E in questo modo chi scatta la fotografia dispone, attraverso quell’immagine, di un potere enorme sul fotografato: un potere di vita e di morte.
Col passare del tempo, e grazie all’alfabetizzazione di una più larga fascia di popolazione, nelle credenze popolari prima, nell’opinione pubblica poi, una volta superato il curioso problema dell’anticipo della morte per via di una fotografia malamente intesa come “sortilegio”, al fotografo è rimasta comunque attribuita la funzione di “operatore magico”. Del resto, chi si sottopone al ritratto, pittorico o fotografico, non lo fa per farsi “immortalare”? A questa funzione si ispirano, non soltanto le foto in ceramica sulle lapidi nei nostri cimiteri, ma anche il corredo di foto degli amministratori delegati nei moderni company profile che le aziende preparano ad uso e consumo delle redazioni economiche dei giornali e delle banche d’affari (e concediamo anche a un amministratore delegato il diritto di aspirare, non soltanto a un corretto bilancio, ma anche all’immortalità: o no?).
Il fotografo è consapevole di questo suo “potere”? Cioè, sa che il suo lavoro produce l’illusione dell’immortalità? Noi che amiamo la fotografia per la sua capacità di raccontare storie senza parole, sappiamo che esistono due specie di fotografi: quelli che su questo loro “potere” costruiscono il proprio successo, e altri che partono da un contesto più terreno, di reality. I primi hanno la pretesa di fare la storia, magari artefatta, ricostruita in uno studio ben organizzato; i secondi raccontano le storie, come capita, dove capita.
Come capita, dove capita: questo è, generalmente, il ruolo di un fotoreporter. E se qualcosa di quel vecchio potere “magico” attribuito al fotografo è rimasto, chi detiene quel qualcosa è appunto il fotoreporter: l’unico che possa inquadrare in un attimo, in una impalpabile frazione di secondo, ciò che altrimenti potrebbe sfuggire all’occhio umano.
La storia della fotografia ci indica nomi di fotografi che hanno lasciato un segno indelebile nell’immaginario di varie generazioni: immagini significative di un’epoca, di un personaggio, di un avvenimento storico. Gli esempi sono tanti. Ma c’è un caso, uno in particolare, che conferma e, nello stesso tempo, contraddice quanto affermato sinora. E ci riferiamo a quell’immagine di Ernesto “Che” Guevara diventata la foto più famosa del mondo e un simbolo universale, malgrado l’inconsapevolezza dei due attori: il fotografo, persona modesta che diceva di se stesso: “Io non sono un talento della fotografia, sono una persona normale che sa usare la macchina fotografica e sa sviluppare un negativo e stampare una foto”; e il fotografato, personaggio leggendario che, come è noto, non amava né mostrarsi in pubblico, né farsi fotografare. Eppure, quella foto è diventata un simbolo, un oggetto di culto, persino un oggetto di consumo, trasmesso attraverso giornali, magliette, tatuaggi, manifesti, spille, cappellini, striscioni, screensaver, libri, mostre d’arte, insomma in tutte le salse. Come è successo, e perché? Difficile rispondere: non saprebbe rispondere neanche il più quotato creatore di uomini-immagine o il più dotato in un brain storming e tutti gli scienziati-folletti che popolano il bosco della pubblicità. E proprio per questo ci piace, per le sue caratteristiche di casualità: perché non è inquadrabile come case history, e perché sfugge alle maglie di qualsiasi regola del marketing (significa che la rigida industria culturale produce qualche falla, di tanto in tanto? Sarebbe una fantastica notizia, che riempie il mondo di speranza...).

Mi è capitato di incontrare l’autore di quella foto alla fine degli anni Ottanta (la foto qui a fianco è stata scattata in quell'occasione). All’epoca, tutti conoscevano quella foto, ma pochi conoscevano il nome dell’autore: e questa era una palese ingiustizia. Alberto Korda (questo il suo nome d’arte) ci venne presentato da un fotografo italiano che aveva organizzato un tour con l’autore, suo amico, in modo da divulgarne, anche se tardivamente, il lavoro. Opera molto meritoria, e soprattutto rispettosa di un semplice concetto di giustizia, perché, da allora, si cominciò a parlare finalmente, non soltanto di “quella” foto, ma anche del suo autore. Incontrai Alberto Korda, per una lunga conversazione, insieme a un collega pubblicitario a Milano, affascinato, certo, dall’incontro con l’autore dell’immagine-culto di uno dei più importanti simboli della mia generazione, ma anche incuriosito dal meccanismo di casualità che aveva determinato la creazione e poi la distribuzione capillare, in ogni strato della società, di quell'immagine.

“Sono nato, diciamo, molto tempo fa, all’Avana, dove ho sempre abitato. Mio padre era un operaio delle Ferrovie. Il mio primo lavoro era quello di rappresentante. Vendevo prodotti della Procter & Gamble: sapone Camay, prodotti per l’igiene. Poi passai - sempre nella Cuba capitalista, ancora dominata dalle aziende nord-americane - alla Remington: vendevo macchine per ufficio, calcolatrici, cose del genere. Avevo 24 anni, sposato, una bambina...”.
Non facevi ancora delle foto?
“Tempo prima, avevo cominciato a fare delle fotografie. Fotografavo le mie fidanzate, insomma le ragazze con cui uscivo: le mettevo davanti a una bella pianta, e scattavo. Tutto qui”.
Ah, chissà che cosa avrebbe pensato Richard Avedon: very cheap! E poi?
“Ero ancora rappresentante della Remington, quando andai a trovare il più noto fotografo di bambini a Cuba. Non riuscii a vendergli un registratore di cassa, però in compenso diventai il suo assistente”.
Il tuo primo maestro?
“Mah, diciamo che usava una tecnica classica. Ma io ero interessato a un altro genere, alla fotografia pubblicitaria. Compravo le riviste nordamericane, Harper’s Bazar, Vogue, e scoprivo un uso diverso e più creativo dell’illuminazione e degli sfondi”.
Che tipo di pubblicità si faceva, allora?
“A Cuba lavoravano la McCann e alcune agenzie locali di un certo prestigio. Lavoravano per il Venezuela, il Messico, per i paesi del Centro America, esclusi Guatemala, Nicaragua e Panama. In genere, i nostri fotografi erano ancorati a uno stile datato. Così io, con la mia voglia di novità, trovai subito spazio”.
Ma immagino che i risultati fossero differenti da quelli delle riviste di moda statunitensi...
“Beh, sì. Ma sai, la professione del modello o della modella, a Cuba, era un’attività disgraziata. Mi spiego: una donna che compariva in un annuncio pubblicitario era considerata un po’, come dire, “leggera”. Perciò nessuna donna “di classe” si prestava a quel tipo di lavoro. Io facevo di tutto per rendere rispettabile questo mestiere, e intanto cercavo un tipo di modella universale, ma con caratteristiche cubane o latine. Sinché, un giorno, un pubblicitario accompagnò nel mio studio una donna di origini modeste: alta e magra, la chiamavano la giraffa, con una punta di derisione, perché, allora, l’ideale di donna cubana era quello di una pin-up un po’ cicciona, bene in carne, appariscente. In realtà, la giraffa era di una bellezza eccezionale. Tanto che iniziai con le fotografie, e finii con il matrimonio, e due bambini. Lei, Norka, diventò tanto famosa che, nel 1961, andò a Parigi per lavorare con Dior. E io, grazie a lei, cominciai a fare delle vere foto pubblicitarie”.
Norka-Korda, strana assonanza...
“È vero. Ma, in realtà, il mio nome è Alberto Diaz Gutierrez. Ma Diaz era un cognome troppo comune e diffuso. Conoscevo i Korda che facevano cinema in Inghilterra, gli ungheresi Alexander e Zoltan Korda, e quel nome mi piaceva. Così lo adottai: era facilmente memorizzabile”.
La cosa buffa è che “Korda” era già uno pseudonimo. In realtà, Alexander si chiamava Sandor Laszlo Kellner. Si era sposato con l’attrice ungherese Maria Corda, ed evidentemente aveva adottato quel nome, modificandolo. Però, intanto, qualcosa cambiava a Cuba. Non soltanto il tuo nome...
“Il I gennaio 1959, Fidel Castro rovesciava il governo Batista, e l’8 gennaio entrava a L’Avana. Come la maggior parte dei cubani, io odiavo Batista, perché impersonava la repressione, il terrore. Però, lo dico con molta onestà, non credevo che si potesse cambiare veramente la realtà di un paese governato, sino ad allora, da associazioni mafiose, dove regnavano la prostituzione e la miseria: era il “casino dei Caraibi”. Quando Fidel arrivò a L’Avana, tenne il suo primo discorso. Io lo seguii alla televisione: quello che disse, e come lo disse, mi fece capire immediatamente che Fidel era il politico che avevo sognato per tutta la vita, e che avrebbe trasformato il mio paese”.
E così è stato?
“Guarda, io non sono comunista, non sono membro del partito, non ho alcun peso politico a Cuba. Sono un uomo che ha perso tutto con la Rivoluzione. Ma sono felice del mio paese. Ho dovuto ricominciare da zero. Ho lavorato per lo Stato, come fotografo subacqueo per 12 anni, con l’Istituto di ricerca dell’accademia delle scienze. Mi hanno dato anche una decorazione per meriti culturali, mi è stato concesso di vivere una vita da freelance, ma lavorando per e dentro lo Stato. Realizzo cataloghi di moda, fotografie turistiche, perché mi sono formato durante il periodo capitalista, conosco il capitalismo, perciò le mie foto sono tipicamente cubane, ma, nello stesso tempo, adatte al mercato straniero”.
Come fa, un fotografo pubblicitario, a lavorare per la Rivoluzione? Come si dice: chi non è riuscito ad essere genio, si rassegna a fare il santo?
“Beh, io decisi di fare il “santo” collaborando al periodico Revolucion, organo del movimento di Fidel Castro. Col tempo, diventai il fotografo ufficiale, o qualcosa del genere, nei viaggi cubani di Fidel. Cosa che feci anche per Che Guevara e per altri dirigenti della Rivoluzione”.
E così siamo arrivati al Che...
“Che Guevara era un uomo straordinario. Lo incontrai, la prima volta, in occasione di un avvenimento sportivo. Era il 1959, e usavo la mia macchina fotografica e delle pellicole Kodak, pagate di tasca mia. Io scattavo e scattavo. Alla terza pellicola, il Che mi dice: “Ragazzo, sei bravo a scattare fotografie, sembri un fotografo yankee... Ma non sai che quelle pellicole costano tanto?”. E io pensai: ma guarda che tipo, le pellicole sono mie, le ho comprate con i miei soldi, e allora perché mi fa la paternale? Però, in realtà, lui faceva un ragionamento più complicato: certo, io avevo comprato quelle pellicole con i miei soldi cubani; ma Cuba importava e comprava quelle pellicole pagandole in dollari. Insomma, il mio problema particolare diventava un caso nazionale”.
Altri aneddoti?
“Un giorno andai, come inviato del periodico del ministero dell’Industria, in una regione a 600 km. da L’Avana, dove il Che avrebbe dovuto provare la prima macchina per tagliare la canna da zucchero: il suo sogno era la completa e moderna meccanizzazione. E così, insieme a un giornalista, parto per le piantagioni, ma non incontro nessuno. Perciò ritorno indietro, e soltanto a notte fonda trovo il Che, sporco, stanchissimo. E gli vado incontro dicendogli: Che, mi ha mandato il giornale de L’Avana per un reportage sulla nuova macchina. E lui mi guarda: “Ah, sì, bene”. Poi si rivoge al suo aiutante, e gli dice: “Questi due compagni sono venuti da L’Avana per avere notizie sulla macchina da canna. Dagli un machete, così ci aiuteranno per il raccolto. E... ragazzi, ci vediamo la prossima settimana”. Così, per una settimana, lasciai la macchina fotografica per tagliare canna da zucchero”.
Un uomo, come dire, un po’ severo...
“Era molto coerente, tanto che provavo un po’ di soggezione. Aveva studiato medicina, ma aveva fatto anche il fotografo, amava la fotografia”.
E, guarda caso, una tua foto del Che, conosciuta e diffusa in tutto il mondo, in forma di magliette, poster, murales, gadget, e chissà che altro, è diventata, dopo la morte del Che, un simbolo. Perché?
“Non lo so. È difficile capire come e perché non una, ma diverse generazioni adottino dei simboli comuni”.
Quella foto è stata scattata durante un comizio, ma non era un comizio del Che. Quando si dice il caso...
“Evidentemente. In quel periodo, gli americani ci attaccavano. Avevamo bisogno di armi per difenderci, e le comprammo dal Belgio: fucili FAL (acronimo di Fusil Automatique Leger, soprannominati “il braccio destro del mondo libero” per la loro diffusione dopo la metà degli anni Cinquanta, ndr), che portammo a L’Avana con una nave francese. Qualcuno, forse la CIA, mise una bomba in quella nave: quando attraccò a L’Avana, mentre venivano scaricate le armi, ci fu un’esplosione terribile: 136 vittime. Il giorno seguente, durante i funerali, Fidel Castro tenne un discorso. Sulla tribuna c’erano, oltre Fidel, Sartre e Simone de Beauvoir. Io ero uno dei tanti fotoreporter: giravo in lungo e in largo, fotografavo la gente, i personaggi. Improvvisamente, vedo apparire il Che. Si ferma, si guarda in giro, e in quel momento scatto due foto, 1/250 di secondo e 5 di diaframma. Tutto qui. Il giorno seguente, consegno le foto al giornale, ma il direttore non dà importanza a quelle immagini. Io stampo ugualmente un particolare di una foto, e ne faccio un ritratto del Che, lo incornicio e lo appendo nel mio studio”.
Dai fucili FAL, alle vittime, alla commemorazione, allo sguardo lungo, ma preoccupato, del Che. Da queste coincidenze, nasce una foto subito dimenticata.
“In qualche modo circolava: avevo fatto qualche copia per degli amici”.
E poi?
“E poi passano gli anni, e il Che scompare da Cuba, se ne perdono le tracce. Sinché un giorno arriva nel mio studio un italiano, Giangiacomo Feltrinelli, con un biglietto di una persona a cui avevo regalato la foto del Che. Il biglietto diceva, più o meno: Korda, ti mando un amico italiano che sta cercando una bella foto del Che; per favore, mostragli la tua. E così, il giorno dopo, gli preparai due copie nel formato 30X40. Quando la morte di Che Guevara diventò di dominio pubblico, Fidel Castro consegnò a Feltrinelli il diario del Che in Bolivia, perché venisse reso pubblico. Feltrinelli utilizzò la mia foto, che cominciò a fare il giro del mondo. Il borghese, il proletario, l’operaio, lo studente, tutti avevano la foto del Che...”.
Quella foto avrebbe potuto rendere una bella cifra, in diritti.
Certo. Ma era un regalo. In fondo, sono grato a Feltrinelli perché ha reso famosa, storica, quell’immagine. È diventata un simbolo della nostra storia, il simbolo di un’epoca. Pazienza per i soldi”.
Da quella foto a oggi, che cosa è successo, che cosa è cambiato nella tua vita?
“È la rivoluzione, non quella foto, che ha cambiato tutta la mia vita. Ho cominciato come fotografo pubblicitario, e sono diventato fotoreporter. Per dieci anni ho seguito Fidel ovunque. Per 12 anni ho fatto il fotografo subacqueo, ma ho dovuto smettere, per questioni di età, e perché fumo parecchio”.
Sigari cubani?
“Sigarette”.
E adesso?
“Adesso faccio nuovamente della pubblicità. Ma sono felice di tutti questi cambiamenti nella mia vita di fotografo: non avrei potuto fare sempre lo stesso genere di fotografie. Ho lavorato con delle donne bellissime. Ho avuto l’opportunità di conoscere i grandi personaggi del mio tempo. Ho conosciuto il mare, di cui, da bambino, avevo paura. Sono riuscito a superare questa paura, ho nuotato tra straordinarie varietà di pesci, coralli e grandi silenzi. Che altro devo dirti? A volte un fotografo diventa famoso, anche molto ricco. Ma non farà altro nella vita: sarà ricco e famoso. Ma chi dice che questa sia l’unica condizione che rende felice un uomo?”.

Alberto Diaz Gutierrez, noto Alberto Korda, era nato il 14 settembre 1928 a L’Avana ed è morto in Francia nel 2001. Non aveva ancora compiuto 73 anni. Era l’autore della foto più riprodotta e conosciuta al mondo, per cui non ricevette, e probabilmente mai pretese, alcuna royalty.

G. G.