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Jools, ovvero l'album delle fotografie del Sessantotto













(Novembre 2007) Ho visto una foto. E ho capito che l’orologio più sincero non è un Patek Philippe comprato da un gioielliere o un Casio pescato in una bancarella, ma l’album delle fotografie: le lancette dell’orologio passano, le fotografie restano.
Girando nella Rete, ho visto per caso una foto di Julie Driscoll - come dire - allo stato attuale. Julie, detta Jools, era il mio grande amore immaginario ai tempi del ‘68, quando c'era chi giocava alla rivoluzione e si impegnava, e io, che ero ancora un ragazzino e soprattutto troppo pigro per la rivoluzione, invece giocavo al Rhythm and Blues e con tutto ciò che gli assomigliava. Un’epoca schizofrenica, in lotta tra pesantezza e leggerezza, tra opposti estremismi della pancia e del cuore, del credo e del non credo. La cupezza di piombo degli anni che seguirono al '68, oggi mi viene ricordata dai leaderini politicosi e dai loro sosia trasferiti nelle televisioni, nel mondo dell’editoria, nel parlamento, dove hanno conservato i colori originali anche se sbiaditi dal tempo, o dove hanno cambiato casacca a seconda delle convenienze o delle coincidenze. Impressionante? Insomma, sì e no. Voglio dire che fa una certa impressione ricordare quel ciccione che menava e correva a Valle Giulia, e che oggi fa il suggeritore di Berlusconi e tiene in mano l’informazione politica serale a La 7. Oppure ricordare quello che tirava pietre dal podio di Lotta Continua e che oggi non sa a chi indirizzare le sue prediche complicatissime, se su Repubblica o sul Foglio o su Panorama. Ma la musica no, la musica era un’altra cosa. Quelle erano persone cupe, e oggi sono presenze altrettanto cupe, fastidiose, anche se mi consola sapere che, se le credenze e le ideologie svolazzano con i loro tazebao e poi vanno a morire insieme alle tessere di partito, la musica invece resta. E nella musica - non nel gracchiante noise, nel rumore di fondo della politica senza novità dei nipotini molto meno stravaganti dei loro nonni don Camillo e Peppone - c’è la leggerezza di quegli anni ambulanti tra il pacifismo dei figli dei fiori e il rock cosiddetto progressivo e spesso aggressivo: la creatività liberata sino all’eccesso, la trasgressione, la teatralità, la satira, una risata vi seppellirà, l’esplorazione della coscienza, perché no, anche per via “psichedelica”. Ma soprattutto la musica e i suoi personaggi, demoni del palcoscenico, angeli dei nostri giradischi.
Un personaggio interessante che rappresenta bene la bellezza di quegli anni è, appunto, Julie Driscoll, vocalist di talento, affascinante protagonista della scena musicale inglese. Una protagonista quasi per caso. Secondo la leggenda, Brian Auger - personaggio a noi molto noto, forse anche per il fatto che ha sposato una cagliaritana, ma soprattutto perché, come disse bene Hancock, è da sempre “one of the best Hammond B-3 artists” - cercava, mentre correva l’anno 1967, una cantante per il suo gruppo. Giorgio Gomelsky, proprietario dell’etichetta Marmalade, gli suggerì di provare la sua segretaria Julie. Un suggerimento o una divinazione, non si sa; ma, grazie a Gomelsky e Auger, tutti potemmo ascoltare quella voce così aggraziata e insieme dura, matura eppure acerba, educata ma spontanea, bluesish e psichedelica. Una bella, fantastica miscela, che fece di Julie Driscoll, non solo una cantante di rilievo, ma anche un personaggio da copertina, esaltato da Elle e Vogue, per via della sua minuta bellezza: la mod-queen, la reginetta della Swinging London.
Bella favola. Ma la verità è che a Gomelsky dobbiamo qualche benefica scossa nella scena inglese tra il 1962 e il 1967. Non per niente, se andiamo a controllare gli album di quegli anni praticamente dispersi negli angoli più polverosi della nostra discoteca, vediamo spuntare Gomelsky come figura di producer e jazz promoter di larghissime vedute: mettere insieme gente come Clapton, Ginger Baker e Dick Heckstall-Smith, Jack Bruce e Alan Skidmore, Jimmy Page, Brian Auger e persino Rod Stewart, significa assistere a un discreto piccolo bang della musica Pop. Né so se la giovane Driscoll fosse realmente la “segretaria” di Gomelsky: i miei ricordi cominciano dai tempi del supergruppo di british blues Steampacket, e siamo intorno al '65, dove giravano nomi come Long John Baldry, Rod Stewart, Brian Auger e la nostra Julie, appunto.
Nel grande movimento di quegli anni, Brian Auger è una figura molto originale. Musicista coraggioso, in piena epoca di coretti e Beatlemania, lui fonda un quintetto jazz (con McLaughlin), poi lascia il piano e passa all’Hammond. E qui è necessaria una piccola celebrazione. Perché non possiamo scivolare con non chalance sul ruolo di uno strumento fondamentale come l’organo nella musica Pop, oggi caduto in disuso con il diffondersi dei computer e degli strumenti MIDI. Ruolo di prezioso tappeto sonoro su cui i poppers osservavano la cerimonia del tè e del narghilè. Un fiume tranquillo da cui staccarsi, di tanto in tanto, per sperimentare, avventurarsi negli impetuosi affluenti, alla ricerca di altre sorgenti del suono.
L’organo è il filo conduttore, la voce narrante, il “chiamatemi Islaele” di un’epopea. E vogliamo esagerare: che cosa sarebbe della leggenda dei Pink Floyd senza il primo Farfisa Compact Duo, e poi l’Hammond M100 e l’amato C-3 di Richard Wright? Da - citiamo a caso - Little by Little degli Oasis, a Downtown Train di Tom Waits, a This Love dei Maroon 5, non c’è un episodio di successo o significativo della musica Pop (certo, a parte Hendrix, ma lui era un marziano, e a parte quell'altra formazione classica del rock ritmica + chitarra ben collaudata dai Cream) in cui non si possa riconoscere quel timbro caratteristico, portante. Ma l’episodio più curioso riguarda uno dei brani di svolta e perciò più importanti di tutta la musica Pop, Like A Rolling Stone di Bob Dylan. Il brano era stato concepito, in origine, con tempo di valzer, e poi modificato in 4/4. Dylan fece le prime registrazioni nel mese di giugno del 1965, con Tom Wilson come produttore, e con i musicisti Mike Bloomfield, Paul Griffin, Josef Mack, Bobby Gregg e il chitarrista Al Kooper come “osservatore”. Durante le session, il tastierista Griffin lasciò l’organo per passare al piano. Kooper, che era un chitarrista abbastanza onesto da riconoscere la superiorità di Bloomfield, all’inizio si limitò al ruolo passivo di osservatore. Poi, approfittando di una breve assenza del producer Wilson, sgattaiolò verso l’Hammond B-3, che in precedenza aveva suonicchiato in rare occasioni, e aggiunse la parte che tutti conosciamo. Ritornato in studio, Wilson non prese per niente bene l’iniziativa di Kooper. Quando Dylan disse a Wilson di tirare su il volume dell’organo, Wilson replicò: "Hey man, that cat's not an organ player!”. E Dylan, che cominciava a scocciarsi dei pregiudizi di Wilson nei confronti di Kooper, ordinò in modo piuttosto ruvido: "Hey, now don't tell me who's an organ player and who's not... Just turn the organ up!”. E così Kooper diventò ufficialmente "organ player". E, come scrivono i libri di storia del Pop, “a classic rock organ part was born”.
Difficile e complicato elencare tutti i protagonisti della lunga avventura di questo magnifico strumento. Ma, tralasciando i languori di A Whiter Shade of Pale (sempre di Hammond si trattava, comunque), potremmo cominciare dal Memphis Sound di Booker T. e della sua Green Onions che ancora oggi viene celebrata negli stacchi pubblicitari (e siamo nel Terzo millennio, niente male), passando attraverso l’entusiasmo e la forza del giovane Winwood, il progressive rock dei Quatermass o le rozze banalità dei Grand Funk, e poi le raffinatezze degli Yes, il pop "sinfonico", i Nice di Emerson (altro grande innovatore: a lui si devono le modifiche tecniche “storiche” sull’Hammond C-3), per finire nella sordina degli ultimi episodi belli, un po’ nostalgici, di Georgie Fame, uno dei nostri preferiti (quando suona, non quando canta), nei CD di Van Morrison degli anni Novanta, come Hymns To The Silence oppure How Long Has This Been Going On, tanto per citare. La fine, il canto del cigno? Ci sembra di trovare il simbolo della fine di un'epoca in Billy Preston che suona, prima di scomparire, nel più recente Danger di Clapton e Cale, che non a caso gli dedicano tutto il CD. Ascoltarlo, così guizzante, puntuale e misurato sull'Hammond, provoca un’inevitabile, piccola commozione, perché suona con la discrezione di un addio, di un vero “inno al silenzio”.
In questo lungo corso di uno strumento così caratteristico, Brian Auger, con il suo jazz rock tendente all'heavy, e attraverso l'eredità di Horace Silver e di Jimmy Smith, aggiunge un contributo importante. Lui era il comandante titanico, personalità forte, persino invadente. Ma così tenero da concedere alla giovane Julie Driscoll frasi da innamorato pazzo come "the best white female singer", e la libertà di digressioni e variazioni infinite. Variazioni che hanno accompagnato poi Driscoll in tutta la sua avventura musicale, sino ai giorni nostri (tra l'altro, ricordo che l'anno scorso è uscita la ristampa in CD, con adeguata rimasterizzazione, di 1969, l'album che Driscoll incise dopo l'abbandono dei Trinity di Auger, e che segnò l'inizio del lungo rapporto artistico e sentimentale con Tippett). Altro che “mod-queen” e “reginetta della Swinging London”. Ammesso che lo sia stata, sembra chiaro che Julie non ha cavalcato a lungo quella situazione, cambiando strada radicalmente, esplorando con una buona dose di coraggio certe vie musicali meno scontate e ben più ostiche del facile soul di matrice inglese: ascoltare uno dei brani che la portarono al successo come The Wheel's on Fire, e poi confrontarlo, che so, con i tormenti di Couple In Spirit, può essere traumatico. Per fortuna, in mezzo c'è anche il ritorno con Auger, e le belle interpretazioni di Rope Ladder to the Moon di Jack Bruce o di Don't Let Me Be Misunderstood. E molto, molto di più.
Quando l’ho conosciuta fuori contesto, cioè fuori dalla carta patinata, quindici anni dopo, ho conosciuto una personalità limpida. Aveva affrontato con risultati eccellenti altre avventure musicali, da sola o con musicisti di rango come Wyatt e Carla Bley, ed era sposata con il pianista Tippett, di cui aveva assunto il cognome, quasi come per liberarsi una volta per tutte del passato di donna-copertina. In quel periodo andava avanti con sperimentazioni spinte, faceva concerti per intimi, specie di mantra, suoni vibrazionali, musica improvvisata dopo essere passata nel gorgo del Free, insomma una palla mostruosa. Con quei concerti non facevano più di trenta persone di pubblico pagante. Venti andavano via dopo un quarto d’ora, nove si addormentavano, e l’ultimo diceva: però, forse è stato interessante. Ma, come è noto, un artista che si mette in gioco, che sperimenta e rischia e si mette in discussione, è sempre in volo, tra alti e inevitabili bassi.
Ricordo quell’incontro alla fine del concerto. Il marito era antipatico, scontroso. Eccellente pianista e compositore (lo ricordavo ai tempi dei King Crimson e di Centipede), forse era soltanto nervoso perché gli avevano dato un pianoforte un po’ scordato: tanto, avevano forse pensato i volenterosi organizzatori (che tra l'altro erano dei miei cari amici, e oggi ricordano quell'evento con una bella dose di incazzatura), a che gli serve un piano accordato, con quello che fa? E comunque io ero davanti alla mia affascinante ex reginetta: di Tippett, quell’antipatico valente pianista-compositore diventato forse un po’ troppo eccentrico, non me ne importava un bel niente. Perciò, quando li intervistai, io giovane carogna, la prima domanda che feci a Tippett fu qualcosa del tipo: “Come va a soldi?”. Il pianista scontroso per poco non mi ruppe il muso e se ne andò imprecando. Così passammo il resto della serata, finalmente, a sentire Jools, che parlava di musica, di scelte coerenti, di condizione della donna nell’ambiente musicale inglese, di cose quotidiane e ordinarie, di piatti da lavare, con una serietà impressionante. Il mio grande amore immaginario era una modesta persona che non trovava differenza tra leggere ieri il proprio nome su Vogue, e leggerlo in seguito sulle bollette del gas.
Le cronache dicono che oggi Julie continua “to be active in music education”, semplicemente: continua la sua ricerca nell'intimo della propria voce, cercando la sorgente, sottoponendola a una rigida educazione e poi liberandola da tutti i vincoli. La collaborazione con Keith Tippett ha raggiunto una coesione che sembra perfetta; le loro ultime performance nei festival di jazz vengono accolte con la rispettosa attenzione che viene riservata ai musicisti più maturi, coerenti nelle loro sperimentazioni. E ora che rivedo queste fotografie raccolte qui e là, questo implacabile orologio del tempo, mi viene da pensare a quelle persone che mantengono una loro coerenza sino alla fine. Perché le belle persone restano belle per sempre. Quelli degli slogan sono rimasti imprigionati nelle loro stesse parole, quelli della musica non hanno finito ancora di volare. Chi era incendiario è diventato pompiere, chi era Julie è rimasta Julie.

G. G.

A PROPOSITO DI SESSANTOTTO: È LA POLITICA CHE NON HA CAMBIATO NIENTE, O È LA MUSICA CHE HA CAMBIATO TUTTO?

Dear Mr. Fantasy, play us a tune

Something to make us all happy
Do anything to take us out of this blue
Sing a song, play guitar, make it snappy

You are the one who can make us all glad
But doing that, you break down in tears
Please don't be sad, if it was a straight life you had
We wouldn't have known you all these years

Nella mia cittadina c'era una rivendita di dischi nella strada principale, quella dedicata al passeggio. Che poi era la strada dove abitavo. Ma, in realtà, non era un vero negozio di dischi: era un negozio di elettrodomestici con un angolo dedicato ai dischi.
Un pomeriggio Pesciolino mi fa: "Accompagnami, vado a prendere un disco". Lo accompagno, entriamo nel negozio, e Pesciolino comincia a sfogliare qualche fila di 45 giri. Sfoglia e risfoglia, alla fine sceglie due 45 giri. Li guardo, gli dico: "Pesciolino... ma hai preso due copie dello stesso disco!". Lui mi guarda con sufficienza e dice: "E allora? Uno lo conservo, l'altro lo ascolto". Era Like a Rolling Stone.
Da allora, sono passati molti anni. Altro secolo, altro millennio. Quell’immagine di un amico che compra due 45 giri della stessa canzone era una specie di foto ingiallita sepolta nel cassetto dei ricordi, sinché non succede questa cosa strana. Succede che la mia vicina di casa affitta il suo appartamento a due ragazze. E queste ragazze, un giorno, sparano della musica a un volume così alto, che sento distintamente i brani attraverso il muro. Ora, quando qualcuno fa casino, mi capita di intervenire per fare rispettare una delle regole che preferisco del condominio: quella del silenzio. In quel caso, invece, lascio perdere. Perché? Perché succede una cosa strana. Succede che le ragazze ascoltano Bob Dylan. E, insomma, su Dylan non posso mica infierire. Riconosco I Want You, Stuck Inside of Mobile with the Memphis Blues Again, Just Like a Woman. E naturalmente Like a Rolling Stone. Insomma, passano da Highway 61 Revisited a Blonde on Blonde in un attimo. Voglio dire: stiamo parlando di cose di quarant’anni fa. E ho l’impressione che le abbiano scoperte adesso. Perché le ascoltano e le riascoltano a più riprese, soprattutto Like a Rolling Stone e I Want You (e per fortuna dimenticano Desolation Row: non che mi dispiacesse, allora; però, diciamo che con il tempo abbiamo dato spazio a un po' più di ottimismo).
Sorpreso? Non proprio. Anzi, così sento meno il peso degli anni. Perché quella musica, quando passa attraverso questi ragazzi, si rigenera. Ho scoperto che alcuni brani di Dylan, come Like a Rolling Stone, sono nella playlist preferita di mio figlio, che sta uscendo dall’adolescenza. Ti aspetteresti di trovare, che so, Rihanna, al limite Feist, persino gli Air, gli LCD Soundsystem, gli Arctic Monkeys, e questi che fanno? Ascoltano Dylan. Che c'è di strano? C'è di strano che queste ragazze e mio figlio ascoltano la mia musica; mentre io, alla loro età, non ascoltavo la musica di mio padre...
(Continua)