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(2008) Ho visto un re. Ah beh, sì beh...

PANIC AT THE CINEMA.
(Ottobre 2008) Philip G. Atwell è un regista di videoclip (Eminem, per esempio) che nel cinema-cinema collauda la stessa tecnica che incanta il pubblico esclamante ooooh my god di MTV. L’ultimo suo film, Rogue il solitario, rientra nel suddetto genere esclamativo: una superficiale via di mezzo tra action movie e thriller (ma i colpi di scena sono più prevedibili delle diarree dei neonati), tra inseguimenti, combattimenti, kung-fu, katana, legioni di morti. Una noia mortale. Eccetto nel momento in cui l’agente dell’FBI Jack Crawford intima a Shiro, boss giapponese della Yakuza: “Disfaccia le valigie!”. Panico tra la platea al cinema: ma si dice “disfaccia” o “disfi”? Alla fine della proiezione una parte del pubblico chiede il dibattito, che viene concesso. Per fortuna, l’intervento di un professore attenua lo sconcerto e risolve il thriller sui composti del verbo fare: “Non preoccupatevi, ci sono vari verbi composti che alle volte tendono a deviare dal modello del verbo da cui derivano. Poi, tra i composti del verbo fare, ce ne sono alcuni che sono oggetto di molta incertezza e differenza di opinioni, non solo tra noi, ma spesso anche fra i grammatici. Comunque, in generale molti composti di fare vengono coniugati come fare. È, appunto, il caso di disfare".

MILANO MANGIA, BEV E CAGA, E LASSA CHE LA VAGA.
(Settembre 2008) In questi tempi di inauditi terremoti finanziari internazionali della serie il mondo non sarà più come prima, si distinguono Milano e la sua ineffabile sindachessa per la loro splendida nonchalance. Ci riferiamo all’allarmante notizia (sfuggita ai commentatori italiani) del rischio di ritiro coattivo del rating assegnato da Moody’s alle obbligazioni della città di Milano, poiché lo stesso Comune non fornisce sufficienti informazioni valutative. Forse perché molto impegnato in altre faccende (per esempio, dividersi il tavolo, regole e giocatori nel nuovo gioco che ha sostituito Trivial Pursuit nelle preferenze dei milanesi, e che si chiama Expo). Pare che la sindachessa, interrogata sul motivo dell’irresponsabile silenzio opposto alle richieste di Moody’s, abbia risposto impettita: “La troppa cunfidensa la fa perd la riverensa”... Qui di seguito riportiamo la notizia.
MOODY'S PLACES THE Baa1 RATING OF MILAN (CITY OF) TN ON WATCHLIST DIRECTION UNCERTAIN.
NEW YORK, Sep 17, 2008 - Moody's Investors Service has placed the Baa1 rating of MILAN (CITY OF) TN under review. The Watchlist action is prompted by the lack of sufficient current financial and operating information. If the information is not obtained within the next 30 days, we will take appropriate rating action which could include the withdrawal or lowering of the rating.


IL POPOLO DELLE LIBERTÀ CELEBRA BATTISTI (E LA CANZONE DEL PIAVE).
(Settembre 2008) L’industria dell’informazione, con la partecipazione ordinaria di quella discografica, tra riflussi della P2 e guerra al P2P, celebra l’Italietta di Mogol-Battisti: quella dei fiori rosa fiori di pesco e dell’alfista che guida "come un pazzo nella notte per vedere se poi è tanto difficile morire". Sembra che tutta l’Italia, coesa come un surgelato nel freezer dei giornali e delle televisioni, si sia fortemente intruppata nelle celebrazioni nostalgiche, a dieci anni dalla morte del noto cantante-compositore di Poggio Bustone in provincia di Rieti.
Diciamo subito, e chi legge l’avrà già capito, che a noi Battisti non è mai piaciuto. Ovviamente, gli riconosciamo il merito di aver emancipato il beat italiano, portandolo a livelli di onesta decenza e persino a punte autarchiche di inaudita originalità nel panorama italiano, musicando i testi di Mogol, attingendo dalla melodia impura di Sanremo e dal R&B in salsa zuccherata (risultato rivoluzionario, se si pensa alla muffa dei salottini ministeriali dei discografici di quel tempo).
Il beat italiano era la traduzione comoda e pecoreccia del lavoro svolto da altri, in Gran Bretagna, negli Stati Uniti. È proprio sottoponendosi a queste "fatiche" della traduzione che maturano autori come Mogol, un signore già molto bene introdotto nell'industria discografica. Poi, l’incontro tra Mogol e Battisti libera entrambi, li porta a elaborare una strada più originale di quella percorsa da una legione di imitatori. Sì, imitatori: perché, da Io ho in mente te (You Were on My Mind di Sylvia Tyson), a Sono bugiarda (I’m a Believer di Neil Diamond), a Tutta mia la città (Blackberry Way dei Move), i cantanti e i complessi italiani più in voga negli anni Sessanta sono i Noschese del beat, la fiera degli imitatori e del travestitismo, gli Zelig de noantri. Nulla di più. Prendono un successo internazionale e lo traducono in modo agghiacciante (Mogol, per esempio, andava forte nelle banalizzazioni di tutto un po’, persino dei Beatles e di Dylan), ad uso e consumo dei juke-box di Ostia Lido e del popolo del Cantagiro.
Un esempio particolarmente significativo è If I Had a Hammer scritta nel 1949 da Pete Seeger, una specie di anatema progressista sul tema dei diritti civili, che Rita Pavone, nello stesso anno (1963) in cui Trini Lopez ne rinnova il successo internazionale, trasforma in una banalità nazionale con Datemi un martello (lo voglio dare in testa... a quella smorfiosa con gli occhi dipinti che tutti quanti fan ballare...). Insomma, le case discografiche italiane dell'epoca sono come dei giornali che prendono in prestito le notizie dal mondo e le trasformano in cronache di Rescaldina o di Camigliatello. Un mondo autarchico che costruisce una diga per arginare l'onda straniera, che ne sfrutta comunque i benefici, ma a muso duro (il Piave mormorò: non passa lo straniero...). Però, questa attività di imitazione degli stranieri, di traduzione e di rapportarsi poi con gli umori nazionali, crea una disciplina, diventa l’esame di maturità di autori, appunto, come Mogol. Di cui è difficile capire e ricucire la poetica, e a volte accettarne le punte di altissima melensaggine, ma che è indubbiamente abilitato a mettere insieme le parole giuste per colpire l’immaginario di un’Italia che tra gli anni Sessanta e Settanta è ancora semianalfabeta e refrattaria alle letture più complicate di una bolletta della luce. Un’Italia che perdura, di cui non si capisce il progresso; un’Italia così “poetica” da innamorarsi tra la luna e i falò su una spiaggia d’estate, abbandonandosi al canto “libero” di Battisti, e poi così orrenda da colpevolizzarsi e negarsi la pillola del giorno dopo perché glielo intima il parlamento dei cardinali.
Ora, chissà perché, quando si parla di Battisti come genio solitario spesso si esclude Mogol. Strano. Perché, a dire il vero, il resto è senza storia: il Battisti che per anni mette in musica i testi di Mogol, e che poi spariglia la coppia per “sperimentare”, prima con la moglie, poi con Panella, produce delle grandi cagate. Così come succede allo stesso Mogol, che dopo Battisti smorza le luci e alla fine le spegne del tutto. E invece, la fabbrica era quella: Mogolbattisti. Escluderne uno, sarebbe come togliere il signor Brion alla Brionvega: inconcepibile. Eppure, l’Italia di queste celebrazioni di settembre lo esclude, eccome. Citandolo al limite come utile spalla. Perché? Perché l’Italia turbata dalle incertezze e dalla stagnazione, che ingrossa il debito, dal debito pubblico, al mutuo della casa, ai debiti scolastici, impaurita, senza scampo e senza credito internazionale, ha bisogno di speranze e come sempre le trova nell’angelo custode, nel Genius loci, nei santi e nei beati, e infine nel genio nazionale, individuale, eroe solitario, solo contro tutti, a dispetto di tutto. Il self-made man illuminato Camillo Olivetti, la passione rampante dell’ing. Ferrari, il fascino erremoscio dell’avv. Agnelli, l’eroismo disperato del bers. Enrico Toti, la simpatica paraculaggine del cav. Silvio Berlusconi, la voce stentata (così la cantano tutti) dell'elettrotecnico e strimpellatore di chitarra Lucio Battisti. L’illusione del canto "libero", che tanto alla fine del gioco arriva il genio solitario che ci salvifica, ci emancipa e libera tutti, e ci accomuna nell'orgoglio del made in Italy.
Celebrare la ditta Mogolbattisti invece del genio Battisti, sarebbe come scoprire la verità sulla fabbrica del cioccolato, scoprire le carte, dire che la canzone è il prodotto di due autori che equivalgono a due soci, insomma di un’azienda. Meglio illudersi più sul canto “libero”, sul genio dell’artista solitario, ignorando il fatto che quelle canzoni vengono “fabbricate” dall'industria discografica. Persino con cinismo, perché anche quello può diventare motore e ispirazione. Come Lennon-McCartney, che, nel pieno del grande successo commerciale, si incontrano per completare una canzone e si dicono tutta la verità, nient’altro che la verità: “Che dici, con questa ci facciamo la piscina?”

A PROPOSITO DELL'ARIA CHE TIRA TRA SORU E DE BENEDETTI.
(Settembre 2008) Dal sito www.finanzaonline.com: “De Benedetti sale in Tiscali. La Management & Capitali di Carlo De Benedetti sale al secondo posto tra i maggiori azionisti di Tiscali. Secondo quanto riportato da alcuni quotidiani, scatta oggi la conversione del bond convertibile della società di investimento di Carlo De Benedetti sul capitale di Tiscali. Con la conversione M&C salirebbe infatti al 6,9%, posizionandosi alle spalle del fondatore Renato Soru (23%) e davanti alla famiglia Sandoz, che avrà circa il 6%. Si sarebbero infatti realizzate le condizioni di mercato che rendono obbligatoria la conversione di un bond convertibile in azioni Tiscali sottoscritto lo scorso dicembre da Management & Capitali e del valore di 60 milioni di euro. I bond avevano scadenza 2012, ma era stabilita una conversione anticipata nel caso il titolo Tiscali fosse sceso per cinque sedute consecutive sotto una soglia determinata in base alla media dei prezzi delle 20 sedute precedenti. Una soglia che secondo la stampa ieri sarebbe stata pari a 1,48 euro.
Ci si interroga ora sul ruolo che M&C potrà avere nelle vicende della internet company sarda alle prese ormai da mesi con la valutazione delle opzioni strategiche”.

GOTT MIT UNS.
(Settembre 2008) Per dimostrare che la Sardegna è Cosa Sua (per fortuna l’uomo di Arcore è persona notoriamente singolare, altrimenti il plurale genererebbe, più che una Cosa Sua, una Cosa Nostra), Berlusconi ha ricevuto il Papa atterrato a Cagliari-Elmas per una visita in Sardegna, a bordo pista, nel tentativo di offuscare la molto legittima presenza del governatore Soru.
Ratzinger è arrivato a Cagliari in compagnia del sottosegretario Letta, con un aereo dell’Aeronautica Militare messo a disposizione dal ministro della Difesa. Tanto movimento, con spiegamento di corazzate, si spiega con l’ansia del Pdl di imporsi come alternativa a Soru in occasione delle prossime elezioni del 2009. La visita del Papa in Sardegna sotto la scorta delle teste d’uovo del Pdl è un chiaro messaggio ai frastornati elettori sardi: anche Dio è con noi.


L’ANGOLO DELLA CULTURA.
(Agosto 2008) Quando andiamo in vacanza non vediamo l’ora di leggere La Nuova Sardegna, quotidiano diretto da Stefano Del Re, di cui apprezziamo in particolar modo le pagine culturali. Un esempio? Alcuni titoli dal numero del 18 agosto:
“La Cucinotta: a 18 anni volevano ridurmi il seno”.
“Phil Collins, divorzio d’oro: oltre 31 milioni alla sua ex”.
“Tom Cruise, slalom tra abbandoni e trionfi. L’amica Paula Wagner lo pianta in asso e lo lascia solo alla United Artist”.
“La crisi di Michael Jackson. La celebre popstar che compie a fine mese cinquant’anni è sull’orlo del fallimento economico”.


LA FESTA ALL’UNITÀ.
(Agosto 2008) Come anticipato dal segretario del PD, Concita De Gregorio è il nuovo direttore dell’Unità, il giornale che fu di Gramsci, ma anche di D’Alema e Veltroni. La giornalista acqua e sapone di Repubblica fa un’entrata soft, mentre Padellaro fa un’uscita hard, tra le molte perplessità dei lettori che avevano visto rinascere un giornale-cadavere proprio grazie ai defenestrati Colombo e Padellaro.
Consapevole dell’aria che tira, la De Gregorio ha subito detto alla redazione che farà un giornale di inchiesta e battaglia, e i redattori si sono chiesti se parlasse di battaglia navale.
Ma proprio per entrare subito in gioco e dimostrare le sue cattive intenzioni, la De Gregorio si porta appresso dal giornale della catena De Benedetti il giornalista Giovanni Maria Bellu in qualità di vice direttore. Bellu si è impratichito in un giornale per tradizione povero di inchieste e piuttosto wishy-washy con il potere locale come La Nuova Sardegna, per poi andare a Repubblica. È stato querelato da Previti, Zorzi, Priebke e Fiore quando si occupava di “misteri d’Italia”: argomento che, complice Lucarelli, è ormai diventato un genere letterario da stazione ferroviaria. Alla fine si è specializzato in naufragi e storie di emigranti. Non è dotato di una scrittura brillante e incisiva come quella di un Deaglio o di un Barbacetto, ma lo stress da trasloco di rotativa potrebbe fargli da integratore vitaminico.

BERLUSCONI COME GOLETTA VERDE, IN FORMATO ESPORTAZIONE (MA È SOLO FUMO).
(Agosto 2008) Goletta Verde ha circumnavigato la Sardegna per controllare se le acque fossero verdi e cristalline. Il genio nazionale Berlusconi è andato in Sardegna per controllare se le acque fossero calme o agitate: c’è da defenestrare Soru; e poi a Olbia c’è il mal di mare nel centrodestra, con gli speronamenti tra lo scatenato ex sindaco Nizzi e il pacioso ma imprevedibile successore Giovannelli che rischiano di spostare in alto mare gli affari in Gallura e di tracciare inedite mappe del potere locale. La vicenda olbiese ha aperto una falla pericolosa: Giovannelli, eletto con un 70 per cento di preferenze, ha sorpreso tutti esercitando un'autonomia considerata troppo indigesta dal ventre gallurese del protettorato sardo di Berlusconi. Tredici consiglieri del centrodestra capitanati dall'ex sindaco Nizzi cercano di metterlo in difficoltà, ma la loro azione di disturbo viene azzerata dal sostegno al sindaco da parte dei consiglieri del centrosinistra. Una situazione burlesca che mette in agitazione l'homo ridens di Arcore.
Berlusconi non è il tipo a cui piacciono le tempeste imperfette: ha lasciato l’umile dimora della Certosa, ha messo sottobraccio l’ombrellone ed è andato a fare un rituale bagno di folla, come gli ha consigliato il medico. Si è tuffato persino nei ricordi, quando ai bei tempi la Standa gli faceva da cash quotidiano; quando l’odiato Soru, che ancora non aveva scoperto quanto ben di Dio si possa racimolare in Borsa, costruiva un’Iperstanda alle porte di Olbia, chiavi in mano. E così è sbarcato nelle banchine di Olbia, si è incamminato verso nord-est (la leggenda dice che abbia preso il bus), ed è arrivato all’Iperstanda. Ha visitato qualche negozio, ha comprato qualche ninnolo, una camicia azzurra, ma niente generi alimentari. Soltanto quelli che l’accompagnavano hanno fatto la scorta.
Berlusconi ha chiacchierato con la gente del luogo, ha detto ai negozianti che abbasserà le tasse, ha baciato una bambina a cui subito dopo sono venute le prime mestruazioni, ha fatto altri piccoli miracoli. Ha domandato agli indigeni che cosa pensassero dell’imprenditore Zoncheddu da lanciare eventualmente alla Regione come mina anti Soru, e gli indigeni hanno risposto che non gliene può fregare di meno.
Il Lanciere Bianco - che è il detersivo preferito dalle casalinghe italiane, ma è visto con molto interesse anche dai bambini che lo confondono con Papa Smurf, ovvero Grande Puffo - si è intrattenuto con dei bambini sardi, a cui ha chiesto notizie sull'andamento scolastico, sulla preparazione in aritmetica, geografia, storia. A un bambino ha domandato: "Qual è stato il periodo più felice nella storia della Sardegna?". "Quello dei Giudicati, ai tempi di Eleonora d'Arborea", ha risposto prontamente il bambino secco, stizzoso, occhialuto, che sembrava un nipotino di Soru. "E quali erano questi giudicati?", ha abbozzato Berlusconi. La risposta del bambino: "Il giudicato di Cagliari, il giudicato di Torres, il giudicato di Arborea, il pregiudicato di Gallura".
Gli avvocati di Berlusconi hanno minacciato querele.
Pensieroso, il Lanciere Bianco è uscito dall’Iperstanda per raggiungere l’auto in cui l’aspettava la moglie Veronica. Vigile ma immobile, pare che muovesse soltanto i cristalli liquidi. Tanto che i fotografi accorsi in massa l’hanno scambiata per un navigatore satellitare gonfiabile.

QUANDO L'INFLAZIONE ERA PICININ.
(Agosto 2008) A proposito di inflazione (esogena o endogena? Boh!), ci è venuta in mente una vecchia canzone dei Pitura Freska del 1993. Si trova su youtube (era il loro secondo video ufficiale):
http://www.youtube.com/watch?v=TuAgKdsj4M8

PICININ
Se colpa de so mama che se na bea dona
so pare anca lu col ghe la vede al dise "bona"
dopo na bea serata dopo anca i biciarini
e una e do e tre... po' vien vanti i fantuini

Picinin, vogio tornar picinin

de dormir in pase desso ti ga finio
tuta la note in pie a sentir che pianse el fio
ogni ocasion se bona par far casin
e se el fio se lagna no te digo el me vissin...

Che co gèro picinin no vardavo el taquin

coi tempi che coreva gèro neto de bain
perché co sincue franchi me compravo le figurine
co diese franchi l'intero album de stampine
co vinti franchi ma magnavo un stic
co trenta franchi me compravo na Bic
co mie franchi, che gèra un tesoro,
compravo tre grami de libano oro
e spachite i buei par meter via i schei...

E adesso che son grande mi toca lavorare

tute le matine alzarsi e andare a faticare
con un milione me pago l'afito
con do milioni me pago il vito
con tre milioni mi compro il cellulare
con cuatro milioni, le bolete da pagare
co vinti milioni che se un ano de lavoro
ghe pago la vacanse al ministro del Tesoro...

TRADUZIONE
La colpa è di sua mamma
che è una bella donna
anche suo padre quando la vede
le dice "boona"
dopo una bella serata e parecchi bicchierini
uno, due, tre… arrivano i bambini

Bambino, voglio tornare bambino
hai finito di dormire in pace
tutta la notte in piedi col bambino che piange
ogni occasione è buona per far casino
e se il bambino protesta, non ti dico il mio vicino…

Che quand'ero piccolino non guardavo a spese
con i tempi che correvano ero sempre al verde
perché con cinque lire mi compravo le figurine
con dieci lire mi mangiavo uno stic
con trenta lire compravo una Bic
con mille lire, che erano un tesoro,
mi compravo tre grammi di libano oro
mentre ora scleri per accumulare soldi…

Adesso che son cresciuto mi tocca lavorare
tutte le mattine andare a lavorare
con un milione mi pago l'affitto
con due milioni mi pago il vitto
con tre milioni compro il cellulare
con quattro milioni le bollette da pagare
con 20 milioni, che sono un anno di lavoro,
gli pago le vacanze al ministro del Tesoro…

SARDEGNA, QUASI INCONTINENTE.
(Agosto 2008) “Sardegna, quasi un Continente” era il titolo di un libro tendente al romantico scritto nel 1959 da Marcello Serra. Titolo che è stato ripreso, senza sforzare troppo la fantasia, dall’Assessorato al turismo della Regione Sardegna in occasione di recenti sponsorizzazioni e iniziative promozionali, e alla fine nel sito www.sardegnaturismo.it. A distanza di mezzo secolo, la Sardegna è “quasi” un’isola, ma sempre più staccata dal vero Continente. Ce lo dicono i recenti dati sull’inflazione italiana rilevati nella prima metà del 2008 secondo uno studio del ministero dell’Economia: la Sardegna, con il suo discreto 4,75 per cento, è al primo posto nella crescita dell’inflazione.
Ora, c’è da dire che i dati relativi all’inflazione sono sempre molto opinabili e ballerini: ci sono quelli del ministero, quelli dell’Istat, e quelli dell’inflazione cosiddetta “percepita”( eufemismo per dire che, se i consumatori credono di pagare la pasta il 30 per cento in più rispetto a sei mesi prima, vuol dire che hanno le allucinazioni). Eppure, è proprio quella “percepita” che si avvicina alla realtà. Altro che allucinazioni.
Per esempio, quello che noi abbiamo “percepito” in Sardegna è stato questo: una confezione di cornetti Algida venduta dalla grande distribuzione a 6,59 euro, contro i 3,50 euro dell’Esselunga di Milano, o la pasta De Cecco a 1,49 euro, contro 1,19 euro di Milano. Sono differenze che variano da 30 al 98 per cento.
Ora, è bene precisare che il primo posto per crescita d’inflazione non significa primo posto per il carovita. Però, considerando gli esempi precedenti, i segnali sono drammatici. Gli esperti diranno che, per quanto riguarda i prezzi al consumo, la Sardegna è penalizzata dalla sua insularità, dai costi del trasporto, dal fatto che non produce altro che pecorino, dalla scarsa concorrenza e dal monopolio di chi ha in mano la grande distribuzione. Mentre i sindacati diranno che l'isola è danneggiata da decenni di economia di rapina in combutta col potere locale, da quegli imprenditori più interessati a esportare nelle proprie casse che nei portafogli dei sardi (esempio: mentre la Palmera dialogava sulla sorte dei tonni e dei "poveri" operai con una Regione miope, intanto cedeva il marchio alla concorrenza e pensava alla valorizzazione delle aree che si affacciano sul golfo di Olbia, lasciate libere dalla fabbrica). Ma tutto questo può determinare scostamenti di prezzo sino al 98 per cento? E allora ci spieghino, gli esperti di economia, perché, tanto per fare un esempio, una confezione di olio di Alghero costa meno a Milano che in Sardegna.
Tra il prezzo di produzione e quello della distribuzione c’è di mezzo il mare dell’incontinenza: quella di chi non riesce a trattenersi dallo svuotamento dei portafogli dei turisti turlupinati e degli indigeni atavicamente rassegnati. Con buona pace dei politici sardi e dei loro slogan ammuffiti.

I MOSTRI.
(Giugno 2008) Da un'intervista del Corriere della Sera a Renato Brunetta, ministro per la Pubblica Amministrazione e l'Innovazione: "Tremonti è fantasioso, io sono fantasioso. Giulio ha grandi visioni, io ho grandi visioni. Lui è geniale, io sono geniale. Ecco, il nostro è un rapporto tra due persone geniali".
L’intervista va letta e analizzata nella sua interezza, perché è sintomatica. Nel senso che leggendola si misura lo stato di salute mentale della guida del nostro Paese e delle sue istituzioni, il genio di questi professori che aspirano al Nobel del paradosso e dello sproloquio.
Si parla sempre più spesso di Italia alla deriva, di declino del “genio” italico: a noi sembra di assistere all’ultimo valzer; una morte a fuoco lento, in cui spiccano la demagogia, il populismo, il fumo degli slogan e degli spot; la frenesia dei personaggi esaltati, non dall’Economist, ma dai giornali della parrucchiera. L’Italia che per “rinascere” (il verbo preferito da un altro campione, la Marcegaglia di Confindustria) si affida alla ragnatela delle baronìe universitarie e a un ex palazzinaro che credeva di essere statista, e si crogiola nel mito della finanza allegra e creativa. L'intervista di cui riferiamo si trova a questo indirizzo:
qui
Dal vangelo secondo Brunetta: non è vero che il petrolio sta finendo; la recessione non esiste; la crisi dei subprime non esiste; i derivati sono un aspetto virtuoso dell’economia americana (ah beh, non è mica roba del demonio, in fondo c’è chi dice che il primo contratto derivato è descritto nella Bibbia); la Northern Rock è fallita per mancanza di fiducia dei risparmiatori (e noi pensavamo, invece, al crollo degli utili e alla politica allegrissima della banca che erogava prestiti a rischio); l’Europa può costruire 50 centrali nucleari lanciando eurobond garantiti con le eccedenze auree (ma quali?) della Bce: certo, e poi facciamo tutti un bel musical e cantiamo in coro Don’t cry for me Argentina.
Queste sono allucinazioni da mescalina: se si pensa che, intanto, l’inflazione corre, crollano i consumi e già si parla di rivolta del pane, vengono gli incubi. Certo, siamo convinti che le scienze economiche non producano scienziati. E siccome le teorie degli economisti non sono verificabili, nessuno gli vieta di sparare cazzate, figuriamoci Brunetta. Persino quelli del Nobel si sentono imbarazzati, quando si ritrovano tra i premiati gente come Robert Merton e Myron Scholes, vincitori del premio nel 1997, così “geniali” da finire tra i gestori del Long Term Capital Management (LTCM), l’hedge fund che si basava sulle teorie del loro modello matematico, e che fallì in poco tempo e in modo così clamoroso che si rese necessario l'intervento diretto della Federal Reserve e delle principali banche d'investimento (che, guarda un po’, erano fra gli stessi clienti della LTCM) per evitare una devastante crisi finanziaria internazionale.
Mostri di intelligenza? Il ministro Brunetta guadagna consenso televisivo e nazional-popolare conquistando un posticino di rilievo nei sondaggi, solo perché mette in rete gli stipendi della PA e le consulenze creative dell’Italia sprecona, imitando il blog di Grillo e attivando il voyeurismo per lo stipendio del vicino ma non la correzione delle storture che generano gli immensi sprechi, di cui la sua compagine politica - da dieci anni - è parte attivissima. E allora, dov’è la virtù di questi scienziati della politica tumida e tronfia, che, prima di avere una concezione alta dello Stato, hanno un’alta concezione di sé stessi? Nelle cronache del Basso Impero, confuse tra le nozze di Briatore, il populismo della dittatura dolce di Berlusconi e la “follia” creativa di Brunetta e Tremonti? Dategli del tempo, dicono gli attendisti. Perché solo il futuro ci dirà se il profilo di quest’Italia in panne è alto o basso. Però, a proposito di alti e bassi, l’unica cosa che ci viene in mente sono i ricorsi della storia: quando un nano crede di essere Napoleone, quella è Waterloo.

COME CAMBIA L’ITALIA.
(Giugno 2008) Gli italiani sembrerebbero sempre più favorevoli al nucleare, secondo i sondaggi dei giornali e delle televisioni di Berlusconi; che, in questo modo, risolverebbe di colpo il noto conflitto d’interessi: basta con la tv-passiva, viva l’Italia radio-attiva.












JUKE-BOX ALL'IDROGENO (E AL PLUTONIO).

Funghi con le spore, funghi con le scorie.
Gli italiani perdera
nno le loro gioie
e per giunta le italiane spose
non avranno più le loro cose.
E i bambini? Fluorescenti,
perderanno 28 denti.
Rischieremo di vivere a stento,
ma il mondo sarà molto più contento
di avere in testa una moderna lampadina
invece della vecchia
brillantina.
In città ci sarà più energia per diventare campioni,
in campagna mirtilli, more e lampioni.
E le lucciole diventeranno lanterne:
lo dice Scajola, non lo dice mica Giulio Verne!

L’INFORMAZIONE SCENDE DALLE STELLE. E LE STALLE STANNO A GUARDARE.
(Giugno 2008) Era maggio, e la lobby dei condizionatori aveva appena cominciato ad affilare i coltelli seminando il solito panico, e così i più importanti organi di informazione, dalla Repubblica al Corriere, titolavano: “Allarme siccità”.
Per fortuna, Dio è più imprevedibile di un editore. Tre giorni dopo pioveva che Dio la mandava. Esondazioni, frane, evacuazioni, con il Po e la Dora che rompevano gli argini, e i venditori di condizionatori piemontesi che chiedevano il mutuo a Intesa
San Paolo, segnando senza possibilità di proroghe il proprio destino, che generalmente finisce con l’andare a mangiare alla mensa dei poveri.
In pochi gi
orni, l’informazione è passata dalla siccità ai piani-rischio esondazione senza provare un minimo di vergogna. E i venditori di condizionatori si sono riciclati cercando di vendere le stufette.
Tutti ormai dicono che l’estate arriverà in ritardo. Anche se Giuliacci, quello delle previsioni del tempo, che l’estate
scorsa faceva da testimonial a una campagna per la vendita di condizionatori, giusto lui ci prova e dice che, però, quando l’estate arriverà, ci saranno delle “ondate” di caldo. Mamma mia che paura.
Intanto Milano si gode questo clima autunnale, con la pioggia pazzerella che abbatte i gas delle auto, le bronchiettasie e il cancro ai polmoni. La stagione stramba fa impazzire i produttori di elettrodomest
ici e i loro pierre che godono di ottimi rapporti con la stampa e le tv. Giuliacci. Gli alberi. E i bambini.
Proprio loro: i bambini. Oggi è domenica, e li sento cantare nel cortile: Tu scendi dalle stelle, o Re del Cielo, e vieni in una grotta, al freddo e al gelo. La celebre canzoncina invernale e natalizia del vescovo napoletano Alfonso Maria de’ Liguori, diventato in seguito santo anche per ovvie ragioni di hit parade. E intanto le stalle se la godono, questa collezione primavera-estate fredda, piovosa, stravolta e fuori dal comune: strapiene di foraggio ed erba fresca e
verdissima, insomma in overdose, le mucche belano, le pecore muggiscono, le capre cinguettano, i maiali abbaiano, e i bambini cantano le canzoni di Natale.

LA CLASSE OPERAIA VA IN PARADISO. E I SALMI DELLA MARCEGAGLIA FINISCONO IN GLORIA.
(Maggio 2008) Montezemolo ha lanciato il nuovo che avanza dal freezer della Confindustria, e così Emma Marcegaglia ha fatto il suo ingresso nell’Olimpo degli i
ndustriali con il suo primo discorso. La relazione del neo-presidente è stata accolta da un coro degli angeli: è piaciuta sia a Berlusconi (perché ha detto “quello che diciamo noi”), sia a Veltroni (perché ha detto quello che vorrebbe dire lui). Il messaggio-clou della relazione, riportato da tutta la stampa, era il seguente: “L’Italia può rinascere”.
Messaggio curioso. Perché la logica degli accadimenti umani e sovrumani vuole che, per rinascere, cioè per resuscitare, bisogna prima morire. Messaggio che, senza dubbio, ha una certa coerenza con la realtà: pochi giorni prima dell’esordio della neo-presidentessa, nello stabilimento Marcegaglia di Casalmaggiore si era verificato un infortunio mortale: un lavoratore di 32 anni è stato schiacciato dai tubi d’acciaio. Il povero operaio lascia una vedova e due orfani.
Per campare e a volte per crepare con 800/1200 euro al mese, gli operai devono fare miracoli; mentre gli industriali promettono la resurrezione. Perciò, tra miracoli e resurrezione, l’Italia conferma la sua più nota leggenda: siamo proprio un paese di santi.

ITALIA=COLONIA (PARLA COME MANGI, MA NON COME SCRIVI).
(Maggio 2008) Nelle job opportunities di Apple si trova un annuncio per la ricerca di un associate creative director/copywriter per l’Italia. L’aspetto più surreale dell’annuncio consiste nella condizione sine qua non dell’eventuale assunzione del redattore dei testi pubblicitari destinati al pubblico italiano: la perfetta conoscenza, non dell’italiano, ma della lingua inglese ("ability to speak and write in English").
A parte gli scherzi, l'annuncio si presta a qualche riflessione più seria. Tanto per cominciare, è incredibile come Apple riesca a trasmettere il proprio stile di azienda all'avanguardia, rigorosa e spiritosa, avanzata eppure friendly, in ogni contesto della sua esistenza, persino nei suoi annunci di lavoro. Per esempio, quando dice che l'aspirante copywriter dovrà essere dotato di "a good sense of humor". Per trasmetterlo ai clienti? No. Troppo facile: perché è lui stesso che ne avrà bisogno, come medicina anti-stress (
"There will be days when you’ll need it")...
Potete trovare l'annuncio a questo indirizzo: qui
La seconda r
iflessione riguarda lo stato dell’arte nella comunicazione pubblicitaria in Italia, di cui periodicamente viene rilevato il piattume, per stile, originalità, qualità delle idee, che latitano. Siamo molto lontani dalla funzione di “produzione del nuovo” conquistata dai pubblicitari italiani tra gli anni Settanta e Ottanta, ma non si indaga a sufficienza sulle cause di questa involuzione. Eppure, una delle cause potrebbe essere proprio l’invadenza delle multinazionali: l’obbligo di un’idea che nasce in inglese per essere poi tradotta in italiano (e viceversa) porta a un linguaggio ordinario, comune, semplificato, omogeneizzato, creato ad uso delle gerarchie aziendali internazionali (e della loro insindacabile approvazione), non sulla base di una specifica cultura locale.

BENEDETTE CANZONI, MALEDETTI AUTORI.
(Maggio 2008) Jane Birkin, in una recente intervista a “Che tempo che fa”, ha detto che Serge Gainsbourg è uno dei tre più grandi poeti francesi, dopo Baudelaire e un altro di cui ci è sfuggito il nome (Verlaine? Qualche altro “maudit”?). L’opinione ci è sembrata eccessiva. Né risulta che Fazio si sia dissociato, così come fa d’abitudine con il povero Travaglio.
Questione di gusti, ma a noi Gainsbourg non piaceva granché. Vero è, comunque, che la Francia ci ha dato autori notevoli e per tutti i gusti. Così tanti, che tra Vian e Ferré c’è ancora molto da scoprire. Per esempio, a causa di un attacco di nausea da colonizzazione angloamericana, e andando alla ricerca di alternative a corto raggio, cioè senza rischiare di mettere i piedi nei rivoli della cacca spalmata dalle mille colonie di mtv, stiamo ascoltando a tutto spiano un album di Allain Leprest, Chez Leprest, Vol. 1, un album bello, che strugge, che scava.
Leprest è un autore e cantante che non ha ra
ggiunto la strepitosa fama di altri colleghi in Francia, malgrado sia dotato di un talento particolare. In Italia è conosciuto da pochi estimatori. A noi piace molto, e crediamo che questo album uscito sei mesi fa sia il metodo più “indolore” per avvicinarsi a questo autore dolce e violento, fragile e disperato, surrealista e visionario, “auteur magnifique tonitruant à l'ombre de Ferré, trait d'union entre deux générations”, come lo definisce L’Express. Indolore, perché qui i suoi ruvidi testi vengono reinterpretati da altri cantanti e musicisti (da Fugain a Daniel Lavoie, da Enzo Enzo a Olivia Ruiz), che rendono le sue canzoni più levigate e fruibili, più preziose e godibili. Belle anche le due canzoni interpretate dallo stesso Leprest, e divertenti ed efficaci le interpretazioni di Sanseverino (Dans le sac à main de la putain) e di Agnès Bihl (Le copain de mon père).
Stéphane Sanseverino è un cantante e bravo chitarrista francese di discendenze napoletane. Agnès Bihl è un’altra francese interessante. È una trentenne che dice di essersi avvicinata alla canzone a causa di un’autentica folgorazione: dopo aver assistito, da ragazzina, a un’esibizione di Leprest in un cabaret di Parigi. Scrive dei testi pungenti, a tratti feroci, graffiante come una coraggiosa Claire Bretecher dei nostri tempi, ma senza la frustrazione disarmante dei suoi personaggi, trasformando in rima le avventure, dalle più banali alle più drammatiche, della vita quotidiana. Tanto feroce da dire, se deve par
lare della fame nel mondo, che milioni di bambini mangiano carne soltanto quando si mordono la lingua. Curiosa e paradossale: dice di avere scoperto la canzone francese attraverso il nostro Fabrizio De Andrè. Esplicita, come in L'enceinte vierge, che in Italia non verrebbe mai trasmessa per ordine del Vaticano. Artista atipica, che dice di scrivere più per i concerti che per le case discografiche, nata artista da metropolitana, da strada, da bar, e oggi da palcoscenico: "Per me una canzone esiste solo quando la canto sul palco". Per le musiche, collabora con eccellenti musicisti, come, per esempio, Giovanni Mirabassi, un bravo pianista e compositore di Perugia, che da 1992 vive a Parigi. Il risultato è uno stile spumeggiante, con piano, bandoneon, arsenico, vecchi merletti e vetriolo on the rocks. Non è un caso che uno dei grandi della canzone francese come Charles Aznavour le abbia affidato la prima parte dei suoi ultimi concerti. Per chi ancora non la conoscesse, questo è l’indirizzo del suo sito web:
http://www.agnes-bihl.fr
Qui, invece, potete trovare alcuni testi delle canzoni di Allain Leprest:
http://www.paroles.net/chansons/1563.1/Allain-Leprest

VELTRONI: L’UNITÀ È FEMMINA. E I SARDI? CHE SI TENGANO LA SOLITUDINE.
(Maggio 2008) Augusto Ditel scrive su La Nuova che gli avvocati del governatore isolano Renato Soru e quelli della Nie (la società editrice del quotidiano) hanno siglato l'acc
ordo preliminare d'acquisto dell'Unità. “Entro quindici giorni - ha detto alla Nuova - nascerà la Fondazione L'Unità che acquisirà la partecipazione del giornale fondato da Antonio Gramsci. Si tratterà di una Fondazione senza scopo di lucro. Il mio interesse è nato quasi per caso: mi sono soffermato sullo stato di precarietà in cui versava il giornale e ho ritenuto giusto contribuire a farlo uscire da questa precarietà e dalle difficoltà in generale. Non era giusto che il giornale di Gramsci e di Enrico Berlinguer fosse trattato come una merce qualsiasi. Vorrei dare - ha proseguito Renato Soru - un contributo di sicurezza e di stabilità a un organo di informazione che storicamente, per generazioni di italiani, ha dato voce alle istanze di riscatto sociale e vorrei che anche la Sardegna fosse protagonista del rilancio della testata”.
La notizia, di per sé, non è brutta. Soru si butta sulla comunicazione, e questa nuova loquacità rende il muto di Sanluri decisamente più simpatico. Meno simpatico Walter Veltroni, che si immette nell’operazione auspicando “una donna alla direzione dell’Unità”. Non a caso, già circola il nome della pisana Concita De Gregorio, giornalista acqua e sapone del gruppo Repubblica-Espresso. Però n
oi lettori non capiamo perché debbano sempre attingere dal servizio taxi del gruppo Repubblica-Espresso, quando, per dire, ci sono giornalisti eccellenti come Enrico Deaglio e il gruppo di Diario sulla piazza (anche se al momento continuano a resistere nel fortino di via Melzo): troppo scomodo farli ritornare a casa?
L’Unità, secondo la redazione di Report, prendeva 6.400.000 di euro l’anno giovandosi del contributo dell’editoria. Antonio Gramsci (L’Unità, quotidiano degli operai e dei contadini, uscì a Milano su indicazione di Gramsci) forse non l'avrebbe presa bene. Ma la cosa non preoccupa nessuno, tantomeno Soru e la sua fondazione "senza scopo di lucro": meglio giocare al toto-direttore.
Speriamo che sia femmina? Speriamo che non venga dal quel gruppo Repubblica-Espresso che, come veniva ricordato nella già citata puntata di Report del 2006, prendeva 12 milioni di euro di fondi pubblici (o meglio, secondo l'aggiornamento riportato nel libro La Casta dei giornali di Beppe Lopez: "In un anno, 16.186.244 euro fra quelli prelevati dalle tasche degli italiani finiscono nelle tasche dell'Espresso-La Repubblica [...] Il quotidiano fondato da Scalfari e dal principe Carlo Caracciolo viene anche teletrasmesso in America e in Australia a nostre spese: 1.351.640 euro l'anno").
Perciò: tanto per cominciare, speriamo che il direttore dell'Unità sia un vero giornalista, alieno da fondi pubblici. E, tanto per finire, speriamo che sia sardo. Dite che non è un'impresa facile? Siamo d'accordo: l'unico che ci viene in mente è Manlio Brigaglia. Peccato che abbia ottant'anni.
P.S. Però, nel frattempo ci viene un dubbio: non avete il sospetto che Gramsci cominci a essere un po' avariato, citat
o com'è a sproposito? E lo cita il capitalista... E lo cita il prete (il cardinal Bertone)... E lo cita il funzionario forzaitaliota (Mariastella Gelmini, neo ministro dell'Istruzione)... Non è che, alla fine della giostra, diranno che a sbattere Gramsci in galera sono stati i comunisti?

ASSEGNATO IL BIG BROTHER AWARD A BIG JIM VISCO.
(Maggio 2008) Nel corso del convegno e-privacy 2008 , sono stati ufficialmente annunciati i vincitori dei premi relativi alle varie categorie del Big Brother Award Italia 2008.
Il BBA Italia è un premio "in negativo" che viene assegnato in tutto il mondo a chi più ha danneggiato la priva
cy. Dicono gli organizzatori: “In una situazione in cui la privacy è fatta continuamente a polpette dalle nuove tecnologie e da discutibilissime iniziative di "sicurezza", il BBA vuole puntare il dito contro chi opera in prima linea contro la privacy, beneficiando spesso del fatto che mai come in questo periodi i "riflettori" della pubblica attenzione sono lontani da questi argomenti. E nella migliore tradizione della Rete, il BBA è una iniziativa molto seria ma realizzata anche con allegria; tutto il BBA è infatti permeato anche dalla voglia di divertirsi, non certo per sdrammatizzare la situazione, ma perché fare le cose con allegria aiuta a farle bene”.
In questa edizione sono stati assegnati: il premio “peggiore azienda privata” a Yahoo!; il premio "Tecnologia più invasiva" alla Banca dati DNA del R.I.S. di Parma; il premio "Bocca a stivale" al conduttore televisivo Bruno Vespa; il premio “Minaccia da una vita” a Franco Frattini; il premio “Peggiore ente pubblico” al Ministero dell’Economia e delle Finanze. Per chi volesse conoscere le divertenti (ma neanche tanto) motivazioni dei premi, può andare al seguente indirizzo:
http://bba.winstonsmith.info
Questa è la motivazione del premio “Peggiore ente pubblico”:

Il Ministero dell'Economia e delle Finanze possiede già amplissimi strumenti di verifica come i poteri ispettivi e l'inversione dell'onere della prova (è il contribuente a dover dimostrare di essere "virtuoso" e non l'amministrazione a provare la violazione di legge). Recentemente, e senza particolari reazioni della società civile, essi sono stati ulteriormente potenziati dalla creazione di schedature di massa (sanitarie, bancarie, ecc.) che sono chiaramente una inaccettabile "scorcia
toia". Invece di controllare palesi e diffuse prassi illegali, violano inutilmente la privacy di milioni di cittadini onesti. Con le ultime disposizioni attuative del famoso Articolo 50 della legge 326 del 24-11-2003, siamo tutti sotto l'occhio vigile e ferreo dello Stato per quanto riguarda la materia sanitaria: per prendere farmaci con il servizio sanitario veniamo schedati dettagliatamente, infine dal 2008 con l'introduzione dello SCONTRINO PARLANTE (Art. 1 comma 28 della Legge 296 del 27-12-2006) per scaricare farmaci di libera vendita siamo ancor di più schedati. E quando, non "se" ma "quando", tutti questi dati finiranno in mani errate, come minimo ci sarà da attendersi la pubblicità targettizzata per supposte e sciroppi; come massimo invece non esiste un limite alle conseguenze negative. Concludendo: con la scusa della lotta all'evasione (e senza altrettanto zelo per la lotta agli sprechi di spesa pubblica), il governo in maniera assolutamente bipartisan ha attivato sistemi di controllo della popolazione degni di stati totalitari. Questo è il peggiore rischio per i diritti dei cittadini; dovesse arrivare un "baffone" popolare, troverebbe già tutto pronto per esercitare ogni tipo di controllo sul popolo. Ma forse l'obbiettivo è proprio questo.

Da ministro vice a Miami Vice.
Sull'argomento torneremo presto, prendendo spunto proprio dalla motivazione del BBA. Per dirne una: la nostra banca informa, en passant, in calce a un recente estratto conto, con minuscolo corpo nove, che, in caso di bonifico transfrontaliero (insomma, basta un bonifico, che so, di 10 euro inviato da un geometra di Roccasecca a un salumiere di Chambery), i dati del cliente finiranno in un serve
r degli Stati Uniti a cui ha accesso il Federal Bureau of Investigation, meglio noto (noto, per via dei famosi telefilm americani presi per cinéma vérité e come pietra di paragone dall'ex vice ministro Vincenzo Visco) come FBI.

CHI RICERCA, TROVA.
(Maggio 2008) A cena con un ricercatore del San Raffaele. Prima parliamo del più, poi del meno: “Sai a chi hanno sottratto i 300 milioni del prestito Alitalia?”. No, non lo so. “Prendono i soldi da un fondo pubblico creato per finanziare la ricerca”. Mi informo, dovrebbe trattarsi della legge 46/82 che ha istituito il Fondo speciale per la ricerca applicata, poi trasformato in Fondo per le agevolazioni alla ricerca, eccetera, eccetera. Eh no, non lo sapevo, come non lo sapevano milioni di italiani; perché, a parte qualche sortita come quella di Susanna Agnelli e un timido passaparola tra bloggers col fiato corto, nessun organo di stampa ha approfondito. Tutti zitti.
Il famoso “prestito” è, in realtà, una maxi flebo a perdere. Prodi voleva concedere 100 milioni, Berlusconi ha rilanciato: 300 tondi e bipartisan. In attesa della sua famosa “cordata”. Ma quale cordata: non sarà che ‘a fune è corta e ‘o puzzo è funno?


IL LANCIERE BIANCO ANNUNCIA UN GOVERNO INCOLORE CHE PIÙ INCOLORE NON SI PUÒ.
(Maggio 2008) Il cavalier Berlusconi, il detersivo preferito dalle casalinghe italiane, ha presentato la lista dei ministri del nuovo governo, che poi hanno firmato diligentemente al Quirinale. Il paolomieloso e sempre più entusiasta Corriere della Sera parla di “record”. A che proposito, non si capisce.
In tutto, sono 21 ministri. Con un parlamento in cui è altissimo il tasso di condannati, prescritti, indagati, imputati e rinviati a giudizio, fa piacere constatare che almeno 9 siano senza portafoglio.

Il Popolo delle libertà ha festeggiato l’annuncio del Lanciere Bianco, a cominciare dalla categoria dei commercianti, che hanno aumentato i prezzi in modo discriminato: non oltre il 30 per cento.
Per arrivare alla composizione del nuovo governo, Berlusconi ha accontentato tutti, purché tutti lo accontentassero. Questo non è un governo: è una proprietà blindata. Alla fine, è stato trovato un posto anche per il povero Bossi: alle Riforme; che è un modo elegante per non dire Ginnastica correttiva e Fisioterapia intensiva.
Scorrendo la lista dei ministri, lo si potrebbe definire un governo incolore, se non fosse così pieno di camicie nere e verdi, cravatte regimental e calze nere autoreggenti. Poche le presenze femminili, con il gradito ritorno di una ministra riscaldata, la Prestigiacomo, a cui è stato assegnato il ministero dell'Ambiente, forse perché Berlusconi la giudica molto decorativa. Contestato per le quote rosa
ridotte al minimo, Berlusconi ha replicato sottolineando la straordinaria varietà: c'è la bionda, c’è la castana, c'è la rossa, c’è la nera e persino la Brunetta alla Pubblica amministrazione e innovazione.
Dopo l’annuncio, non c’è stata nessuna reazione da parte dell’opposizione, che è ancora in terapia farmacologica. Soltanto Di Pietro ha parlato di ministri "deboli": dopo averli sfidati a braccio di ferro e alla corsa coi sacchi, si presume. Tra le tante incompetenze e/o incongruenze, curiosa la scelta dell’ex valletta di Magalli, Mara Carfagna, per il dicastero delle Pari opportunità: più che un tocco, un tacco di classe.
A proposito di incompetenze, tra le analisi dei commentatori politici spicca - per sagacia: a conferma del fatto che, per fortuna, il nostro è ancora un paese per vecchi - l’osservazione dell’ottuagenario Giovanni Sartori sul Corriere: “Sono pronto a scommettere che se all’attuale squadra del governo Berlusconi venissero affidate Mediaset, Fiat, Eni, Luxottica e simili, in pochissimo tempo diventerebbero altrettante Alitalia. Il Cavaliere si vanta di essere un imprenditore. Perché non ci spiega, allora, come mai applica all’azienda Italia criteri di reclutamento che certo non applicherebbe alle sue aziende?”.

BELLA CIAO, ANZI ADDIO, FORSE ARRIVEDERCI.
(Aprile 2008) L’Italia ha festeggiato, tra le polemiche dei revisionisti e i pelosi distinguo dei post-fascisti, il 25 aprile; che ormai non è più la festa della Liberazione, ma il compleanno di una cugina di secondo grado di Berlusconi. Insomma, ha ragione chi teme che il disastro ambientale, cioè la marea nera che si è abbattuta sulla penisola italiana con le ultime elezioni politiche, stia svuotando di significato una data-simbolo importante. Per il prossimo anno, aspettatevi qualche scherzo: tipo che si sposti la festa, dal 25 al I aprile.
Tanto per cominciare, la sindachessa-podestà di Milano, Letizia Moratti, ha mandato a dire che il 25 aprile era già impegnata in una gita fuori porta. Eppure tutti la ricordano molto partecipe, anche troppo, quando, nella manifestazione di due anni fa, arrivò a spingere in sfilata il vecchio padre in carrozzella. Un film destinato a turbare almeno una generazione, così come Psyco turbò la generazione degli anni Sessanta.
Ad Alghero, invece, il sindaco forzista ha deciso di togliere il saluto alla Resistenza. Alghero è un ridente paesotto della Sardegna, noto ai turisti per alcune stradine caratteristiche, per i caratteristici pescatori di surgelati, e per un prodotto tipico d’importazione che, non a caso, viene chiamato aragosta alla catalana. Meno ridente è il sindaco, che si è rabbuiato per lo scandalo suscitato dal divieto alla banda del paese di eseguire la più nota canzone della Resistenza, Bella ciao. Il motivo? Ragioni di sicurezza: la banda era dotata di tutto, ottoni, grancassa, piatti, tamburello, però le mancava il triangolo. Il sindaco, giustamente, si è lamentato del fatto che i media si siano occupati della vicenda soltanto adesso: “È dal 2003 che non facciamo più eseguire Bella ciao”. Insomma, ha dovuto aspettare cinque anni perché i giornali parlassero di lui. Se questa non è un’ingiustizia.
Ora, quello che ci spaventa non è tanto la cronaca raccapricciante di questo pazzo aprile, di questa storia rovesciata che vede uno con la croce celtica al collo diventare sindaco di Roma, quanto le conseguenze. Quelli che, come noi, hanno in playlist Bella ciao cantata da Yves Montand (e non solo: persino Hasta siempre comandante Che Guevara in versione gipsy degli Alma Ritano), che fine faranno: Guantanamo?


WOW!
(Aprile 2008) Elezioni d'aprile. Vince lo zoo tycoon messo su da Berlusconi. Spariscono nel nulla i vanesi della sinistra cosiddetta "radicale". Affonda il partito post compromesso storico, colpito dal brutto ricordo della pallida inconcludenza del governo Prodi.
L'impressione che il Pd avesse poco di nuovo da dire, e che soprattutto non sapesse comunicarlo al paese reale, viene confermata da un intervento di Linda Lanzillotta su SkyTg24. Quando, commentando i primi exit poll, dice che "i dati sono ancora random". E con l'udc Baccini incredulo, che se la ride e chiede agli altri ospiti in studio: macchevordì random?".

DENTE PER DENTE: ORTODOSSO SARÀ LEI.
(Aprile 2008) Nel gran mare delle cazzate sparate da Berlusconi nella sua campagna elettorale, ci sembra di aver trovato la perla finale nel suo ultimo monologo a Porta a Porta: quando ha detto che Veltroni è l'ultimo rappresentante dell'ortodonzìa marxista.

DO UTERO DES.
(Aprile 2008) Quando e se vincerà Berlusconi, si aprirà la guerra degli scambi di poltrona nel circo di nani e ballerine messo su dal Lanciere Bianco. Per adesso, l'homo gaudens di Arcore e la destra sono ancora allo stadio di semplici scambi culturali, come quello anticipato dalla dark lady della Fiamma Tricolore (detta anche Lady Chewingum per via delle labbra semoventi), Daniela Santanchè, che ha rivelato: "Berlusconi è ossessionato da me. Tanto non gliela do...".

ELETTO IL PRESIDENTE DELL’ART DIRECTORS CLUB ITALIANO: SARÀ UNA COPIA O L’ORIGINALE?
(Marzo 2008) L’Art Directors Club Italiano è un’associazione creata da un gruppo molto ristretto di pubblicitari italiani negli anni Ottanta, a imitazione di analoghe associazioni internazionali, con lo scopo di pubblicare un “annual” contenente le presunte migliori o più significative campagne pubblicitarie italiane, accompagnando poi la presentazione pubblica dell’annual con una premiazione dei migliori lavori. Insomma, una sorta di autocelebrazione.
Nel corso degli anni, l’associazione è stata sottoposta a una trasformazione (si è dotata persino di un "direttore scientifico", neanche fosse la Treccani), uscendo dalla nicchia con l’ingresso allargato a molti soci, e con il contestuale abbandono di personaggi tra i più significativi dell’advertising italiano: dallo scomparso Armando Testa, a Gavino Sanna. E questo ci sembra molto in linea con la trasformazione del mondo pubblicitario: le agenzie hanno attraversato momenti di crisi risolte nel peggiore dei modi, perdendo le figure più carismatiche, riducendo drasticamente il numero di addetti, perdendo per strada significato, forza e importanza nel rapporto con le aziende e gli utenti pubblicitari. Si dirà: è un male o un bene? Senza dubbio, è meglio così. Per molti anni, a partire dai rampanti anni Ottanta, l’esaltazione della pubblicità elevata ad “arte” ha creato una pericolosa confusione. Oggi si rileva, invece, un salutare retour à la normale. La pubblicità è quello che è, non più quello che vorrebbe essere: i pubblicitari sono uomini-sandwich “a servizio completo” usati dalle aziende per veicolare prodotti e servizi di varia natura. Con l’evaporazione della presenza trainante delle forti personalità, è rimasto il pensiero debole di addetti privi di memoria storica, degli impiegati a termine dell’immaginetta con contorno di salmi esposta sull’altare del consumismo. La pubblicità che ci scorre davanti è un oggetto d’uso comune senza valore aggiunto, senza identità e dignità; la copia di una copia di una copia di cui si è persa la matrice originale. Condizione palesemente frustrante per gli art directors e i copywriters italiani a cui, oggi, non resta altro che ricordarsi di esistere almeno una volta l’anno, per la pubblicazione del proprio annual con contorno di festa, coriandoli e premi aziendali.
Intanto, è stato eletto il nuovo presidente dell’Art Directors Club Italiano. Figlio di un pubblicitario abbastanza conosciuto nell'ambiente dei pubblicitari milanesi, è autore di slogan in rima baciata (Galbanetto, se comincio non smetto); dell'apprezzato, ma anche controverso, commercial Gandhi-Telecom Italia (quando si scoprì che la centrale di spionaggio creata all'ombra di Telecom spiava mezza Italia, la scelta di Gandhi-Big Brother apparve alquanto inopportuna); e autore di un commercial Telecom girato nel 2003, purtroppo simile a un commercial Telefonica girato da Paul Arden, ex direttore creativo della Saatchi. Giovane e simpatico, con esperienze di lavoro all’estero, si chiama Marco Cremona e ha dichiarato di essersi candidato con l’intenzione di “arginare il degrado in cui è finita la pubblicità italiana”, e perché “l’Adci ha perso glamour e appealing”.
Complimenti al neo eletto. Però a noi, più che un complesso degrado della creatività italiana, sembra di vedere un più semplice degrado del vocabolario.

IL FESTIVAL DI SANREMO, LA GIOVANE CANTANTE SENZA NOME E IL FRATELLO DI EVARISTO.
(Febbraio 2008) Abbiamo visto qualche sprazzo del festival di Sanremo. Un atto dovuto, in quanto abbonati Rai. Ma, proprio come abbonati Rai in regola con il pagamento del canone, ci viene da dire, citando una vecchia canzone di Gerry Rafferty: “Can I Have My Money Back?”. Purtroppo, il servizio pubblico non prevede il diritto di recesso.
Pare che questa edizione, affidata alle cure di Pippo Baudo, abbia attirato meno spettatori rispetto alle precedenti formule: troppo “varietà”, troppe variazioni fuori tema e insopportabili lungaggini, scarsa qualità delle canzoni proposte. Né gli ospiti più o meno di rango hanno risollevato le sorti di un festival noioso: con una Mannoia che stonava e una Giorgia che dopo due minuti di strilli ti fa venire il latte alle ginocchia, perdi la pazienza e diventi intransigente anche con i giovani di belle speranze. E questo è il punto più dolente: se il festival di Sanremo offre uno spaccato anche del mondo musicale giovanile, vuol dire che la produzione musicale in Italia è a livelli infimi. Abbiamo cercato, nelle cronache dei giornali, sulla rete, qualche analisi che spieghi questa involuzione, ma senza successo: i critici si limitano a fare i critici, e probabilmente non dispongono di un adeguato background culturale per spiegare questo paese senza qualità. In particolare, abbiamo seguito il blog di un critico musicale che generalmente ci piace, perché più vicino ai gusti della nostra generazione: Ernesto Assante, di Repubblica. Ma anche Assante, chissà, forse spazientito, forse annoiato, si è limitato a una cronaca superficiale, e alla fine, a corto di argomenti, è scivolato sulle battute sprezzanti, come nel caso di una giovane cantante, Giua.
Giua è una giovane cantante-compositrice ligure seguita con un certo interesse dalla critica: per la sua eccellente preparazione musicale, per la sua ricerca nell’ambito della musica latina e della canzone d’autore italiana. Ha una bella voce e scrive canzoni ancora un po’ acerbe che risentono di influenze scolastiche (qualche poeta francese, lirici greci, facile simbolismo, mirto, edera, eccetera), ma caratterizzate da una certa originalità. È dotata di un talento ancora in via di sperimentazione. Diciamo, in fase di maturazione: se allargasse i propri orizzonti con collaborazioni e scambi più appropriati, se leggesse più poesia e meno cantautori, se ascoltasse più songwriter donne e meno antiquariato, più Feist e meno De Gregori, potrebbe dare una svolta più interessante alla propria evoluzione artistica, in modo che le buone intenzioni possano prendere definitivamente il volo.
Giua si è presentata al festival di Sanremo con tre handicap:
1) È bella.
2) È intelligente.
3) Ha presentato una canzone non troppo bella né troppo intelligente, con un titolo sfortunato, “Tanto non vengo”, che poteva innescare qualche equivoco, o qualche preoccupazione, nel pubblico maschile in difetto di prestazioni.
La canzone, che non era di qualità inferiore a quelle degli altri "giovani", non è stata apprezzata dalla giuria di cosiddetti “esperti” presieduta da Claudio Cecchetto, il vate dei dj, il profeta del Gioca Jouer. (Per chi non lo ricordasse, riportiamo qui di seguito il testo di quella leggendaria canzone di Cecchetto, in bilico tra il non sense di un ubriaco e la stupidera dell’asilo: Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto!/ One, two, three, four, five, six, seven, eight!/ Dormire, salutare autostop, starnuto, camminare, nuotare, sciare, spray, macho, clacson, campana, ok, baciare, saluti, saluti, superman!/ Ok ragazzi adesso cerchiamo di farlo meglio! Ricordatevi che si parte sempre da dormire./ Fate attenzione alla differenza tra camminare e nuotare e nel finale due volte i saluti. Farlo bene! “Gioca Jouer!”/ Dormire, salutare, autostop, starnuto, camminare, nuotare, sciare, spray, macho, clacson, campana, ok, baciare, saluti, saluti, superman!/ One, two, three, four, five, six, seven, eight!/ Ok ragazzi, ora più veloce, perchè i comandi cambiano ogni due battute, se riuscirete a farlo, d'ora in poi potrete farlo anche solo con la musica, perchè sarete dei veri campioni di "Gioca Jouer!"/ Dormire, salutare autostop, starnuto, camminare, nuotare, sciare, spray, macho, clacson, campana, ok, baciare, saluti, saluti, superman! All right!).

Sono passati molto anni, e la cosa che ci ha sbalordito è il progresso dell’uomo: ai tempi di Gioca Jouer, Cecchetto sapeva contare fino a otto; al festival di Sanremo ha dimostrato di saper contare almeno fino a dieci. Ma, come dicevamo, la giuria presieduta da questo genio della matematica non ha accolto di buon grado la proposta di Giua. E va bene. Ma neanche alcuni critici musicali sono stati teneri, e non si capisce perché. Come nel caso di Assante, e della sua battuta sprezzante: “Arriva Giua, che non si capisce se è un nome o un cognome”.
Strano, abbiamo pensato. Se Assante - che, malgrado le apparenze, non è un participio presente, ma un critico musicale - ha di questi dubbi, potrebbe sempre fare un salto dal suo ex collega di Repubblica Claudio Giua, diventato direttore generale di Kataweb, e chiedergli: “Ma Claudio è un nome e Giua un cognome?”. Poi, nell’attesa di una risposta, potrebbe ampliare la propria biblioteca aggiungendo un libretto di Lisa Foa pubblicato da Sellerio qualche anno prima della sua scomparsa, che si intitola È andata così, e che contiene delle interessanti “conversazioni a ruota libera in via Aurelia” raccolte da Brunella Diddi e Stella Sofri. Non dovrà fare neanche un particolare sforzo di lettura, Ernesto Assante, perché troverà una risposta ai suoi dubbi nelle prime pagine del libro, nel capitolo intitolato “Ebrei di Sardegna”. Che, per comodità di tutti, riportiamo qui di seguito.

I Giua.

Mi chiedete delle mie origini. Sono importanti le origini perché uno se le porta dietro come i geni delle proprie cellule.
Il mio nome di famiglia è Giua, cioè giudeo, nome ebraico, tanto è vero che in Sardegna gli ebrei vengono genericamente chiamati “giua”.
Non ricordo sotto quale imperatore romano, ancora prima della distruzione del tempio di Gerusalemme, pare che gli ebrei siano stati esiliati da Roma in una landa desolata della Gallura. Lì un po’ alla volta si assimilarono alla popolazione locale, fu così che Giua diventò un nome sardo.
Ci sono altri ebrei in Sardegna. Quando la costa occidentale era sotto il dominio catalano quel ramo ebraico fu colpito dalle leggi razziali di Isabella di Castiglia e anche lì gli ebrei furono costretti a emigrare. Una lapide ad Alghero ne ricorda la storia. Comunque di questa presunta origine ebraica non è rimasta alcuna traccia nella famiglia di mio padre.
Ho frequentato poco la Sardegna. Avevo quindici anni quando nel ‘38 ci andai per la prima volta. Ma la sento vicina e familiare, forse per via delle nenie che mio padre mi cantava da piccina e che avrebbe cantato anche ai miei figli, passeggiando su e giù per il corridoio. Oppure perché da ragazzina mi affascinavano le vicende di Giovanni Tolu, il pastore fuorilegge entrato nella leggenda.
Sono nata a Torino e mi sento soprattutto torinese. Trovo che il carattere sardo e quello torinese non siano poi così in contrasto, entrambi chiusi, fieri e cocciuti. In casa, quando i figli si impuntavano su qualcosa, dicevamo “ecco il filone sardo che viene a galla”.
Ho abbandonato nella firma il mio cognome perché ero stufa di sentirlo storpiato in Gina o Giva, come accadeva non solo quanto andavo a scuola ma anche dopo. Ancora di recente un postino aveva da ridire su “questi stranieri che hanno nomi strani, tutti pieni di vocali” [...].

Fin qui, Lisa Foa, la “Lisetta” di Lessico famigliare di Natalia Ginzburg (certo, la sua ipotesi era suggestiva, se pensiamo a Luras e a certe saghe famigliari, ma era una baggianata; a parte il fatto che i sardi hanno poco da spartire con i sergenti piemontesi: senza andare a disturbare gli ebrei, possiamo dire che ghjua in gallurese, e gurja, giua, zua in sardu nugoresu, significano criniera o cortina dei monti). Sulla base delle spiritose riflessioni di Lisa Foa, a Giua, la giovane cantante di Rapallo, bisognerebbe dare atto almeno di un certo coraggio: se non altro, per il fatto che, adottando quel cognome come nome d’arte, corre consapevolmente il rischio di farsi chiamare - in quest’Italia di scarse letture e in difficoltà se alle prese con una consonante seguita da tre vocali - Gina, Giva, Guia o Giuva; o di sottoporsi agli sbertucciamenti del critico musicale, improbabile esperto di linguistica diacronica, che dice “Giua, non si capisce se è un nome o un cognome”; a cui potrà comunque rispondere: Ernesto, non si capisce se è un nome o il fratello di Evaristo, il coglione sinistro.
Riki, Tiki e Tavi