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L'estate di Tonto

Sugli italiani ossessionati dallo sporco impossibile, sui grandi silenzi e l’effetto gregge, sul grande equivoco delle alghe e della posidonia.


(2007) Per ragioni che non sto a spiegare, e che non interesserebbero nessuno, ho mancato il mio solito appuntamento col paesello in giugno e ho dovuto ripiegare sul mese di agosto: il peggiore. La domanda è rimbalzata con un brivido caldo, anzi caldissimo, sulle lingue dei componenti della piccola famiglia: che fare? L’ipotesi di passare le vacanze nei dintoni della mia città natale e di sentire gli odori di Briatore e compagnia ci ha fatto venire il voltastomaco. E così ho perso tempo per decidere. Mentre agosto avanzava, e con lui il tutto esaurito. Poi ho sognato.
Ho sognato le mie estati selvagge da bambino. Quando non avevano ancora inventato la Costa Smeralda. Quando le spiagge erano in gran parte deserte. Ho sognato gli odori. Quando il mio babbo ci caricava in auto un po’ dopo l’alba, quando col primo sole si spalancano gli odori del cisto, e si andava all’avventura, verso sud, sull’orientale sarda.
Facevamo più di cinquanta chilometri su una strada difficile, a tratti sconnessa, percorsa da poche auto, che attraversava un paesaggio solitario, con poche case. Allora le automobili si fermavano per un nonnullla, bastava un carburatore appena sporco, e si rischiava di passare la notte con l’auto in panne sul ciglio della strada. Succedeva con tutte quelle che ricordo: dalla Fiat 1100-E color celestino che ricordava la Balilla e veniva chiamata “musone” per il frontale spartivento, alla grande 1900 verdolina, alla 1100-103 grigio topo. Le automobili erano una rarità. Dalla targa della nostra auto nella foto deduco che le immatricolazioni nella provincia di Sassari superassero di poco le seimila unità, perciò non si poteva sperare nel soccorso di altri automobilisti. Non esistevano carri attrezzi, bisognava aspettare la mattina seguente perché un meccanico venisse da lontano con la sua auto per trainarti. Malgrado mio padre capisse qualcosa di motori, perché, oltre a scorzare sughero e fabbricare tappi, vendeva e aggiustava automobili nella sua commissionaria Fiat. Ma il rischio e la fatica venivano sempre ripagati dalla suggestione dei luoghi. E poi, anche se il mio babbo era un gallurese gentile con gli altri, era un tipo tosto, un sugheraio che all’occorrenza sapeva menare le mani, e così noi bambini non avevamo paura degli orchi. Ma c’è da dire che noi galluresi, appena si entrava in provincia di Nuoro, pensavamo di entrare nel territorio degli indiani, nel territorio dei “banditi”: noi galluresi non eravamo meno “banditi” di loro, ma facevamo finta di non saperlo. Tutto il mondo è campanile. E comunque, a dire il vero, a me gli indiani sono stati sempre simpatici. E forse anche a mio padre. Del resto, lui che scorzava sughero già da ragazzino nelle foreste delle Barbagie e delle Baronie conosceva bene e rispettava, sempre con le dovute riserve di un gallurese linguacciuto e polemico, lo spirito dei luoghi.
A volte andavamo verso un paesino di pescatori, una colonia di ponzesi, che si specchiava su chilometri di spiagge bianche, aperte a tutti i venti, al vento di maestrale o al libeccio, perciò a volte fastidiose. Lì andavano i nuoresi per il bagno. E negli Anni ‘60 trovavi le donne col vestito lungo nero, intente ad abbronzare le caviglie. E poi i ragazzi dell’interno a muso duro con cui giocavo a pallone. Poi, un po’ più giù, c’era il silenzio, grandi spiagge vuote. Che ho continuato a frequentare, ogni anno, con una visita fugace, per nostalgia, per piacere personale, e perché anche mio figlio potesse amare i luoghi della mia giovinezza, la gente nata in quei luoghi, i sentimenti che tramandano e che ispirano. E così ho deciso: andiamo lì.
Lì c’è una vegetazione che non è stata intaccata dal fuoco. Le grandi dune. Una passeggiata lunga e meravigliosa che parte dalla spiaggia sino al vecchio faro, attraverso i sentieri delle capre, tra il granito, la vegetazione bassa, qualche pinnetta (intesa come capanno, con come bosco di pini), qualche recinto per le capre. Dicono che questo fosse luogo di contrabbando, di traffici. E questa leggenda lo rende misterioso. Come è misteriosa la grande distesa azzurra che si apre davanti, sino al blu più cupo, e che perciò mi dà la stessa sensazione che provo in un altro luogo che amo molto, ai confini della nostra cultura occidentale, dove già gli umori cominciano a mischiarsi, insomma voglio dire nell’ultimo lembo di Portogallo. Poi ritorni indietro e c’è una lunga selva di ginepri che costeggia la spiaggia, i pochi ginepri sopravvissuti al saccheggio. Il paesaggio marino che si fonde con il paesaggio umido dell’interno, stagni e rias con contorno di salicornia, giunco, ciuffi di canneggiole e tamerici. Una miscela meravigliosa, che fa esplodere i sensi. E una pace che è rara, difficile da trovare da altre parti in agosto. Una pace che perdura, malgrado il crescente affollamento delle zone limitrofe, per un motivo incredibile, che voglio raccontare.
Innanzitutto, devo premettere che la pace non dura per sempre, ma il paradiso può attendere il giorno di Ferragosto, quando arrivano cinque o sei grandi barche con i loro tender, gommoni e gommoncini che stazionano sulla battigia, qualche maleducato che porta il cane in spiaggia: mi è capitato di vedere un dobermann, un pastore tedesco, un pittbull. O una raffinata signora milanese che faceva defecare la figlia sulla spiaggia, a pochi metri da mio figlio (e che, grazie a Dio, ha reagito prontamente). Così come mi è capitato di assistere, sempre a Ferragosto, all’accensione di falò sotto i ginepri. Imbarcazioni sul bagnasciuga, cani in spiaggia e falò sono ovviamente vietati, ma qui la Guardia costiera non l’ho mai vista (un tempo avevo la buona volontà di avvisarla per telefono, ma era una perdita di tempo), né il Comune a cui appartiene questo piccolo paradiso si degna di effettuare controlli, o di installare qualche cartello di divieto per gli smemorati. Il che equivale a un grande spreco. In altri paesi ne farebbero un’oasi controllatissima, ma qui è come dare perle ai porci. Per fortuna, gli istinti abominevoli degli italiani, e dei sardi meno responsabili, vengono a sfogarsi qui soltanto a ridosso di Ferragosto. Poi ritorna la pace. E allora è bello nuotare e fare il piccolo golfo coast to coast con una nuotata leggera, lenta, indisturbato, e quando alzi la testa ritmicamente hai questa magia dei colori e degli odori che ti tonifica insieme al lento movimento dell'acqua.
Qui la zona è facilmente raggiungibile perché è stata ultimata la strada a scorrimento veloce, anzi troppo veloce. Quaranta, cinquant’anni fa, mio padre con la vecchia Fiat impiegava delle ore. Oggi in mezz’ora scarsa i turisti vanno dappertutto. Turisti eccitati che traslocano con le loro nevrastenie, che rendono pericolosa la strada, con una guida aggressiva e sconsiderata. Eppure il paesaggio visto dalla strada è ancora bello, da godere con calma, brullo e improvvisamente verde, circondato dal tenue indaco delle lontane cortine dei monti di granito o dall’improvviso apparire di una montagna albina di calcare. Ma i turisti si trasferiscono in fretta, accelerando, spingendosi oltre i limiti, incollati alla corsia di sorpasso o zigzagando. Sinché, a volte, si schiantano.
Sì, anche qui comincia ad esserci un certo fastidioso affollamento. Non ci sono villaggi turistici e grandi alberghi, per fortuna. Trovi ancora case disponibili per l’affitto a un prezzo decente, magari quelle dei nuoresi che non vengono in agosto. Però trovi i turisti non stanziali, quelli in continuo fermento, nervosi o isterici, che si spostano insoddisfatti di spiaggia in spiaggia, di villaggio in villaggio, e sono come morsi dall’argia o dalla tarantola. Però io riesco ancora a evitarli. Perché succede una cosa strana. Succede che io lascio la casa con vista sull’ultimo promontorio, prendo la macchina e vado verso il faro e posteggio. Prima di arrivare alle dune e al mio posto preferito, devo attraversare una piccola spiaggia che quest’agosto era affollatissima, con ombrelloni in terza fila, con la gente che si sfiora e si sovrappone, crema su crema, tanfo su tanfo. Li guardiamo, io e mio figlio, e gli dico: questo è il gregge. Quando una pecora, due pecore romperanno il recinto che si sono imposte, sarà la fine: il nostro posto diventerà invivibile. Verranno tutte queste pecore. Ma adesso no. Adesso no perché c’è qualcosa che spaventa, che terrorizza le pecore continentali: la posidonia.
Ora, io pensavo che tutte le persone che vanno al mare sapessero che cos’è la posidonia. Ma sbagliavo. La posidonia per me è l’essenza del mare. Quando si secca e marcisce nel bagnasciuga, quell’odore intenso e caratteristico è il profumo che mi porto dentro, da sempre, nei miei ricordi. Quando si stacca dalle praterie che forma nell’acqua e va a depositarsi sulla spiaggia, forma delle dune su cui è piacevole sdraiarsi, perché si adattano al tuo corpo. E quando sono secche crepitano come un piccolo fuoco, trasmettono un piacevole benessere, sono accoglienti come il grembo di nostra madre.
Le persone non lo sanno. Gli italiani che non amano il proprio paese, che vanno al mare ma non lo amano, che vanno a scuola ma non sanno, che cosa vengono a fare in questi luoghi se hanno terrore della posidonia? Hanno terrore perché le loro coste sono contaminate da spiagge artificiali, perché preferiscono lo stabilimento balneare e il vacanzificio, la sabbia setacciata e rastrellata, all’avventura di una spiaggia selvaggia. E perché la loro arroganza, che è una succedanea dell’ignoranza, gli impedisce di pensare, di scegliere autonomamente.
Soltanto trecento metri separano la spiaggetta affollatissima dalla spiaggia di cui parlavo. Ma i turisti italiani non ci vanno perché c’è la posidonia, che chiamano “alghe”. E che evidentemente confondono, che so, con l’alga assassina o con la mucillagine. E che per loro è “sporca”. Abituati come sono agli spiaggioni rastrellati del Veneto, della Liguria, della Romagna, o della Toscana o del Lazio. Spiagge morte. Per gente morta.
Vedi, dico a mio figlio, come vuoi che voti questa gente, se non è capace di discernere, di separare il bello dal brutto, il vero dal falso? Lui ci pensa e non gliene frega niente di buttarla in politica. Sono solo stronzi. Però mi sembra che qualche reazione, a lui che è nato a Milano, gli venga sotto la pelle. Io sono stato da un barbierino di un paese all’interno, a cui ho detto: taglio corto, taglio da pastore. Perfetto. Con soltanto 10 euro, quando a Milano ne chiedono tra 18 e 22 per un taglio da fighetto perbene. E lui, mio figlio, mi ha seguito dopo qualche giorno per un taglio in sintonia. Appunto, facciamo vedere chi siamo: pastori.
La posidonia è l’erba dei pastori del mare. Erroneamente viene confusa con le alghe. Invece è una "pianta superiore" endemica del Mediterraneo. Mentre ci trovavamo nella nostra spiaggia, è venuto un gruppo di romani, caciarone. I turisti che si avventurano da queste parti, con una grande prova di coraggio, si ammucchiano, stanno tutti vicini come in un piccolo condominio per farsi coraggio. E questo è bene perché a noi che amiamo il silenzio restano dei chilometri liberi. Molti non ce la fanno e ritornano indietro. I romani hanno piazzato tre ombrelloni e sono rimasti, a far casino, predatori, saccheggiatori, a buttarsi sugli scogli con pinne e occhiali e fare il pieno di polpi e uccidere inutilmente una piccola murena di pochi centimetri. Mentre il loro corteo ci transitava davanti, uno di loro ha detto: “Ahò, ma quant’è sporca ‘sta spiaggia, ma non la puliscono mai?”.
Stupido romano. Assueffatto al piattume dei lidi de noantri, confonde la vegetazione marina con la sporcizia. I resti spiaggiati della posidonia sono le caratteristiche “olive di mare”, i ciuffi, le infiorescenze, gli steli. Sono fiori, foglie, non sporcizia, stupidissimo romano. E poi le “palle di mare” che mia moglie porta a casa come puntaspilli, si chiamano egagropile, ammassi di residui di fibre di foglie che, cadute sul fondo del mare, vengono appallottolate dal movimento delle onde di risacca e finiscono spiaggiate. Sfere perfette, erano i miei giochi da bambino.
Un giorno, passano due ragazzine e mi fanno tenerezza perché non sono arroganti, ma dolci. Una fa coraggio all’altra: “Non guardare dove metti i piedi, pensa che sono cose naturali”. Certo, la posidonia è “naturale”.
Quello che neanche immaginano, questi turisti strutturati, è che la posidonia è il termometro della salute del mare. È il ritratto della salute del mare. Perché è sensibile all’inquinamento chimico e organico. È la “certificazione” della qualità dell’ambiente marino. Le praterie a posidonia, quelle che sopravvivono ai disastri dell’uomo (all’inquinamento, alla pesca a strascico, alle ancore strappatutto delle grandi barche), sono il “polmone verde” del Mediterraneo, perché ossigenano le acque. Garantiscono la sopravvivenza di pesci, molluschi, echinodermi, crostacei. È il loro reparto maternità: depongono le uova nel fogliame, che diventa un perfetto nascondiglio. E, soprattutto, le praterie di posidonia proteggono le coste dall’erosione, fanno da barriera alle onde. Anche le foglie che si ammassano sulla battigia hanno questa funzione. Non caso, proprio i “verdi”, in questa zona, si oppongono alla drastica pulizia delle spiagge, con quelle macchine che portano via tutto, anche la preziosa posidonia depositata sulla sabbia. (L’ha ricordato, a scanso di equivoci, anche il responsabile per la Gallura di Legambiente Sardegna sul quotidiano La Nuova Sardegna, in agosto. Bravo il mio vecchio amico Martino).
La posidonia è il mio aut aut. I resto è acqua morta. Non per gli italiani, che non sanno nulla di quello che sfugge agli scaffali dei loro ipermercati e ai cataloghi dei loro valtur. Come alle due coppie che si vengono a piazzare di fronte a noi, dove eravamo soli, in questi chilometri di ambiente selvaggio. Ci capitano come marziani. E marziani sono, con la loro parlata del nord est. Sono le quattro pecore uscite dal gregge, come dicevo a mio figlio, che hanno saltato il recinto, che rischiano l’avventura, che per un giorno hanno detto famolo strano, come i romani del giorno prima. Si piazzano davanti a noi, e una tira fuori le tette gommose, e non fa per niente l’effetto di una bombshell. Una, la più accanita, dice “ma che fognaaa!”. Che “schifooo” questa spiaggia. E già il sangue mi sale di temperatura. Si china e spolvera il suo pezzo di spiaggia, lo giuro, dalle egapropile. Farà l’estetista, dico ai miei. Farà la depilatrice. E l’estetista continua, ma addolcisce il linguaggio. Sembra di stare alle terme, dice. E capisco che confonde l’odore della posidonia con l’uovo marcio, lo zolfo di Tabiano. Hanno i sensi distrutti, questi italiani. Ma non la coglioneria. Che li spinge a ficcare nella sabbia candida e sottile come farina le loro innumerevoli cicche di sigarette, micidiali. Poi mia moglie mi dice: guarda. Le dico non guardo, meglio raccontami. Lei dice: sai che fa quella? Che fa? Chi lei? No, l’altra. Ha tirato fuori una pinzetta e si sta strappando i peli delle gambe. Mi alzo e li prendo a pedate, dico. Ma si alzano loro, le tettemolli con i loro ganzi. Smollano l’ombrellone e se ne vanno, con le loro sigarette, con le loro pinzette per i peli superflui. Ritornano nel gregge. E io alzo gli occhi al cielo che ha evitato il massacro. Allora è vero che Dio esiste?
Per un impenitente agnostico, questi sono momenti cruciali. Più prosaicamente, sinché in Sardegna ci sarà separazione delle carriere, i turisti buoni da un parte, i turisti cattivi dall’altra, sinché ci saranno i Briatore che fanno da calamita al mal di vivere, saranno preservati questi spettacoli della solitudine, i nostri religiosi silenzi. Me lo dico sulla banchina, prima di imbarcarmi per il ritorno dopo queste settimane di vacanza nelle splendide Baronie, lontano dalla mia cittadina natale da troppi anni in mano ai vassalli sardi del Berlusca. Settimane magiche come il mare di stelle che ogni notte affascina anche questo mio figlio nato a Milano. E che non ha torto, perché come disse Einstein, Looking at the stars is looking at history of the Universe. E che affascina anche me, perché è un sentimento che si rinnova di padre in figlio. Attraverso le persone così diverse, così uguali, che amano queste stelle, questo mare. Che mi pulisce. Che mi fa sentire libero da contaminazioni. Sino all’ultima banchina, prima di entrare nel ventre del traghetto e nelle nuvole tinte di rosa. Dove incontro un mio nipote che lavora al porto, come ha fatto suo padre, come ha fatto suo nonno. E vorrei dirgli, invece di “allora ci vediamo”, che una delle fortune che possano capitare a un bambino che vuole diventare uomo, è nascere in una città di porto. Ma lui mi guarderebbe male e mi direbbe: ajò, sgombrami il piazzale, muoviti rincoglionito che parte la nave. Però con le dovute delicatezze, perché lo sanno tutti che lo zio è un po’ lunatico.

Banduleri