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Surgelati

Nel 1915, il commesso viaggiatore americano Charles Birdseye finisce nel Labrador, dove ha modo di osservare un importante fenomeno: il sistema più efficiente nel congelamento degli alimenti non consiste soltanto nel raggiungimento delle basse temperature, ma soprattutto nella velocità di raffreddamento. È così che inventa i “surgelati”, allestendo un laboratorio in cui delle fette di carne vengono surgelate tra due piastre di metallo a bassa temperatura.

(Data di pubblicazione sul blog: 8 maggio 2007)

A Monaco di Baviera, il cielo era plumbeo; l’aria, immobile e fredda. Fiocco era ospite di Paula.
Fiocco e Paula eseguirono in silenzio e con un po’ di noia il rito della colazione del sabato mattina: due uova, salsicce di fegato di maiale, fette di pane nero, burro salato e Dallmayr Kaffee.
Nella Schellingstraße, l’acquerugiola imperlava minuziosamente i visi di due passanti: un postino; una pensionata che faceva scorrazzare un cane fulvo e nanuccio.
Paula dava uno sguardo al giornale e Fiocco smanettava con la radio. Bayern I trasmetteva Für Kinder, un programma per bambini; Bayern II mandava in onda Komponisten in Bayern; Bayern III alternava, come al solito, i programmi musicali al Nachrichten e ai servizi giornalistici. A Bayern III dissero che un automobilista viaggiava contromano nella strada per Nürnberg. Fiocco era italiano e non capiva granché del tedesco; Paula gli spiegò che c’era della gente che decideva di suicidarsi così, facendo molto chiasso.
Il giornale quotidiano Abendzeitung, nelle pagine centrali, pubblicava una lunga intervista con il capo della CSU, il partito cristiano sociale bavarese. Nello stesso giornale, Fiocco scoprì che in un supermercato, fuori Monaco, nella Ingolstädter Straße, vendevano la birra Paulaner hell a un prezzo molto conveniente. Paula preferiva la Löwenbräu.
Fiocco sarebbe andato lì a prendere la birra e a cercare qualche altra occasione d’acquisto, giusto per fare un giro. Ormai aveva visto mezza Monaco; aveva mangiato Knödel di fegato e pane, arrosto di maiale, piedi di vitello lessati, crauti, salsicce bianche e rosse, panini con aringhe e cipolle, e poi cetriolini in aceto, Salzbrezeln e formaggi puzzolenti, Krapfen untuosi, insomma tutto il repertorio della cucina di Karl Valentin; aveva digerito quasi tutto, aveva preso anche un po’ di botte e spintoni allo stadio: non gli restava altro che cazzeggiare.
Mentre stava per parlare a Paola, e in effetti ne parlò almeno in parte, dell’editto di Guglielmo IV sulla birra, del malto d’orzo, del luppolo, del lievito e delle caratteristiche dell’acqua, Paula aveva già sentito il pericolo, si era alzata e aveva tagliato corto: “Vado in bagno”.
In bagno, seduta sulla tazza, Paula ci aveva pensato su e si era chiesta: “Ma come accidenti è riuscito a sapere quella cosa di Guglielmo IV?”. Lasciò perdere e si concentrò nella lettura dell’Abendzeitung. Era la sua giornata libera: poteva fare con calma.
Comunque, a Paula non dispiaceva che Fiocco amasse i grandi magazzini, quelli a tanti piani, con il ristorante o la pasticceria, tipo Hertie am Bahnhof. Paula lavorava in un ipermercato, che non era la stessa cosa. Il fascino per i grandi magazzini poteva anche suscitare tenerezza. Ma non sopportava la pedanteria di Fiocco. Quella, no. Perché le ricordava esattamente il suo ambiente di lavoro.

Un grande magazzino è qualcosa che assomiglia ancora a un negozio, con le vetrine che espongono le merci, con le novità, i saldi, le offerte, le curiosità, la vetrofanìa. Ma un ipermercato è un luogo... è possibile considerarlo un “luogo”? Forse, sarebbe meglio dire un “non-luogo”: una maxi-struttura, cioè uno scatolone piantato nell’asfalto di un mega parcheggio, senza vetrine, ma con una grande porta scorrevole che fagocita e poi espelle colonne di persone, ma soltanto nelle ore stabilite dalla direzione. Le persone entrano e, senza accorgersene, seguono un percorso obbligato. Un percorso che diventa più evidente nel supermercato, attraverso corridoi delimitati da grandi scaffali, che sono come grandi dormitori, tanti lettini a castello in cui vengono alloggiate le merci, in cui le merci attendono che si esaurisca il proprio destino. Sì, perché le merci soccombono così, per esaurimento.
Quando le persone invadono il supermercato, si ha la sensazione di entrare in un posto “pieno”, vivo, affollato. In realtà, quando Paula e i suoi colleghi cominciano a lavorare, di prima mattina, hai la consapevolezza di entrare in un posto “vuoto”, in un ambiente tanto grande che ti sfuggono i contorni, dove sono le stesse merci, ben disposte e allineate, che creano gli spazi, alzano muri e pareti, si espandono a zig zag, e formano un vero labirinto. Un labirinto semplice, non a tela di ragno, non così complesso, ma il senso è quello: circoscrivere in un dato spazio il groviglio più complesso di sentieri e ritardare l’arrivo del viaggiatore alla meta.
Voi vi chiederete: perché mai il labirinto di un supermercato deve ritardare l’uscita dei clienti? Questa è la risposta più semplice: perché così comprano di più, anche il superfluo. E quando arrivano alle casse, con il carrello carico, dopo essersi persi nei sentieri e tra gli scaffali, è come se ritrovassero se stessi, la luce, la libertà. È una cosa ascetica, spirituale: è difficile spiegarla bene.
Paula osserva incantata i clienti che frequentano il supermercato, il loro viaggio di andata e ritorno: li segue e vede che il labirinto li porta all’interno di se stessi, dove cercano la parte più misteriosa della loro natura umana; e allora il supermercato diventa una specie di santuario interiore, pieno di oggettini, di cose, di sensazioni, di odori di vaniglia, di cipolle, di rafano, o come l’aceto dei cetriolini e delle aringhe, odori che hanno quasi un ruolo, come l’incenso nelle chiese.
Li guarda, e vede che fanno dei lunghi giri, questi viaggiatori; e ogni loro acquisto è una pietra miliare, la tappa di un lungo viaggio; e sono sempre più concentrati, sempre più estranei agli accadimenti esterni, fino a quando raggiungono il momento dell’illuminazione, dell’intuizione finale: quando, finalmente, dopo aver valutato prezzo e qualità, dopo aver decifrato l’etichetta con quella cura che solitamente viene dedicata alla lettura di una stele egizia, dopo essere stati folgorati dai colori e dal marchio, dopo aver rigirato tra le mani un detersivo o un vasetto di yogurt o una radiolina o un salame o un frullatore o un barattolo di cetriolini, dopo averne valutato la consistenza o la leggerezza, la qualità o la novità, dopo aver provato tutte queste sensazioni, ecco che arrivano alla scoperta finale, quando credono di aver fatto la scelta giusta, quando pensano di aver trovato quello che cercavano. Allora depongono il prodotto nel carrello, e si sentono quasi liberati. Ma in questa azione non c’è più niente di materiale: alla fine del cammino, tutto diventa più spirituale. Anche quando si mettono in coda alle casse e tirano fuori il portafoglio e la carta di credito: quello è soltanto il biglietto che pagano per aver visto la luce, oltre le casse, oltre la grandiosa porta a vetri: è l’uscita dal labirinto; è la fine di un viaggio, che non li fa sentire più ricchi, più pieni e appagati, ma trasformati e rigenerati.
Un labirinto, un simbolo magico, antico, che a volte ti toglie il respiro e ti mette ansia. Questo è il supermercato di Paula. Ogni tanto un bambino si perde, e, così pensa Paula, noi diffondiamo la sua identità dagli altoparlanti, cerchiamo la sua mamma, la chiamiamo per nome e cognome, e la mamma accorre per liberare il suo bambino ingoiato dal labirinto, la piccola vittima sacrificale che ci serviva per riempire il vuoto.
Sì, un posto “vuoto”. Perché, all’ora in cui Paula e i suoi colleghi indossano la divisa, e i maschi toccano il culo alle donne come segno di virile scaramanzia, e fumano una sigaretta o fanno la pipì nei bagni prima di portarsi ai posti di combattimento, non c’è ancora vita, non c’è neanche la musichetta ipnotica degli altoparlanti, non c’è ancora il drin drin delle casse, non c’è il tran tran e il cigolìo dei carrelli. Certo, gli scaffali sono pieni, ogni spazio vuoto viene immediatamente riempito per ordine del direttore, ma le merci sono soltanto piccoli cadaveri infilati nelle migliaia di loculi, numerati, catalogati per genere, razza o marca, taglia e dimensione, e prezzo. Di ogni merce, dice Paula, sappiamo quanto ci costa e quanto deve rendere. Di ogni merce abbiamo provenienza, data di nascita e scadenza. Di ogni merce conosciamo il destino: sappiamo quando è nata e sappiamo con largo anticipo quando morirà. Abbiamo programmato tutto.
Se una merce sopravvive alle spese settimanali dei consumatori, e infine scade, Paula passa negli scaffali e la ritira. Questo è uno dei suoi compiti: fare l’appello ai generi alimentari, che lei mette alla stregua degli esseri viventi. Paula non entra nel merito della politica aziendale e della catena distributiva; comunque, sa che nel mondo esistono due correnti di pensiero: quelli che cercano di massimizzare l’efficienza dei magazzini per contenere i costi; e quelli che invece si concentrano sull’intero sistema delle spedizioni, soprattutto sulla velocità con cui il prodotto viene inserito negli scaffali una volta giunto al punto vendita. Per tutti, il problema è il contenimento dei costi e il guadagno di produttività per l’insieme della filiera, dal fornitore al punto vendita. Tutti i padroni hanno un’ossessione: comprimere i costi. La grande distribuzione, quella più efficiente, è dotata di tecnologie di data-mining, di sistemi e software in grado di raccogliere informazioni sui modelli di consumo dei clienti. Lo stesso sistema serve per gestire la logistica in funzione delle variazioni settimanali delle vendite, e per organizzare il personale secondo le esigenze del momento; così Paula e i suoi colleghi vengono spostati alle casse nelle ore di punta, in corridoio o in magazzino quando i clienti diminuiscono: la loro vita quotidiana dipende, non solo dall’umore di un capo-reparto, ma soprattutto dalle elaborazioni di un software. Perciò si può dire che i supermercati e la catena distributiva si stiano imponendo come un nuovo modello di democrazia. Paula è una piccola parte di questa catena, di cui sente di essere l’anello debole.
Il momento più bello della giornata, per Paula, è quando viene destinata al corridoio, tra gli scaffali e gli espositori dei generi alimentari. A Paula non è dato di sapere che fine farà la merce scaduta, quella che lei trasporta nel magazzino sotterraneo: qualcun altro si occuperà dell’esecuzione, o del riciclo. Però Paula, in fondo al cuore, pensa o spera che quella lattina, per esempio quella lattina di caffè scaduto inderogabilmente, non venga soppressa del tutto, che non venga mandata allo sterminio. E le resta sempre un filo di speranza, perché nella confezione - lei l’ha letto molto bene - c’è scritto “da consumarsi preferibilmente entro il...”. E un avverbio non è mai una certezza assoluta, è qualcosa che allunga le parole e la vita, che lascia sempre spazio a un dubbio, a una via di scampo.
Paula non riesce a sopportare che si cancelli così una storia; non riesce a immaginare che quel caffè piantato in Guatemala o in Nicaragua o in Brasile da un emigrato lucano, raccolto da un campesino per pochi real per conto di un’impresa americana, importato da una ditta con sede nel Principato di Monaco, macinato e tostato in Germania da un turco in società con uno svizzero, messo in vendita nel suo supermercato che appartiene a un merger franco-italo-tedesco, debba finire in un inceneritore, in un immondezzaio, al macero, lui che è nato per finire in un filtro o in una macchinetta del caffè, per essere lavato dall’acqua calda, e sprigionare profumi, e tonificare l’umore di una persona, di una coppia, di una famiglia. Un caffè caldo non è qualcosa che attraversa le viscere senza lasciare un segno di sé che non sia feci e urina. È qualcosa che resta. È più di un ricordo. È un sentimento.
Paula passa in rassegna gli scaffali, conosce tutto delle sue merci, e in questi ultimi tempi sa bene che il Dallmayr Kaffee è vicino alla scadenza. Spera che non lo lascino morire. Spera che il capo reparto, per una volta, non sia così implacabile. Spera che qualcuno abbia dimenticato di registrarlo. Oppure spera che qualche cliente veda quelle tre scatole lunghe e dorate, ultimi rappresentanti di una specie in estinzione, e che le adotti, le porti via nella sua casa, le coccoli sino a quando è possibile. Preferibilmente.
Per le carni, per i pesci, per i formaggi, per i surgelati, per il prodotto fresco, invece, non c’è scampo. Lì non c’è niente da fare: Paula non può salvare nessuno. È tutto registrato, e la tabella di marcia è implacabile. Le carni impilate, ben confezionate nel cellophane, piegate e adagiate nei vassoi con cura e delicatezza così come si ripone una giacca di cachemire in valigia, sono tutte pronte per il viaggio nel carrello. Stesso colore; stessi nervi che le attraversano come linee della vita, della testa e dell’amore sul palmo della mano; stessi fili di grasso. Sono tanto uguali che sembrano provenire dalla stessa Grande Madre, brandelli della Grande Fecondatrice, che più la tagli, più si autoriproduce.
Per le carni, la vita è breve: un paio di giorni, e via. Ogni tanto, raramente, arriva qualcuno per prendere a caso dei campioni, e qualche tecnico di laboratorio fa delle ricerche biochimiche: controllano che siano passabilmente commestibili, se c’è qualcosa da migliorare, che sia tutto a norma di legge. Non fai in tempo ad affezionarti, a chiederti perché e come, perché il ciclo è continuo: le carni a pezzi, a fette, sfilettate, arrotolate, macinate, e poi ricomposte, trattate e speziate, lardellate, o lasciate crude e spoglie: coscette, alette, fettine, struzzi, quaglie, polli, vitelli, anatre, manzi, agnelli, conigli, tacchini e maiali, ossi, ossibuchi e senz’osso, trasformate in una nuova categoria artificiale, in un’industria ospedaliera, vanno e vengono, con un ripetersi ostinato. Infatti, quelli che lavorano al reparto del fresco sono i più cinici. Sono come i medici. Sanno tutto delle carni, sono specialisti del cuore, del fegato, degli arti, dei reni o dei muscoli, ma non guardano in faccia nessuno. Sono freddi esecutori. Non soffrono, non sentono, non ridono, non piangono. Obbediscono. Obbediscono alle regole di un mestiere di cui solo alla fine della carriera, mai prima, sfugge il senso.
Obbedire. Obbedire e combattere. Così si lavora nel supermercato. E Paula combatte tra gli scaffali, conosce tutti i nascondigli lungo i sentieri del labirinto; sa come mettere in mostra i prodotti che rischiano di scadere: li mette all’altezza degli occhi, nella fila centrale, lì dove basta allungare un po’ la mano per prenderli senza sforzo, con un gesto naturale; ma ogni prodotto scaduto, ogni prodotto ritirato, a Paula lasciano il gusto amaro di una piccola sconfitta.
A volte, Paula si chiede se qualcuno abbia pensato questo luogo a tavolino; e a chi e a cosa si siano ispirati, questi programmatori, a quale modello di architettura, di vita, di religione, per riuscire a concentrare, nello stesso luogo e nello stesso momento, tanta gente disposta a consumare le stesse cose, nello stesso giorno, alla stessa ora, nello stesso modo. Perché questi luoghi anonimi si assomigliano tutti: in Germania, in Italia, negli Stati Uniti, in Australia, a Singapore. È un modello universale. È possibile che ai tedeschi, agli italiani, agli americani, agli orientali, sia venuto in mente di riempire questo vuoto, e poi di svuotarlo, e di riempirlo ancora, all’infinito, e che sia venuta in mente questa stessa cosa, nello stesso momento? No, certo che non è così. Il supermercato non è un’invenzione, non è una scoperta improvvisa, non è la folgorazione di un premio Nobel. È la conseguenza di qualcosa, è l’evoluzione di quella cosa. Che cosa?

Paula si pulì il sedere con la carta igienica del supermercato, si lavò a lungo e alla fine uscì dal bagno. Fiocco le prese il giornale per controllare se ci fossero gli orari dei treni; era andato a Monaco, con un gruppo di amici, per seguire la squadra del Milan contro il Bayern Monaco in Champions League, poi aveva deciso di passare qualche giorno da Paula: era tempo di rientrare in Italia.
Nella stazione ferroviaria di Monaco si radunano gli immigrati. Qualcuno tocca i seni alle ragazze. In una birreria della zona, uno slavo ubriaco parlò di sua figlia a Fiocco, esaltandone le qualità. Gli mostrò una foto e propose, con una certa insistenza, uno scambio con Paula. Fiocco si arrabbiò. Paula, invece, si fece calma e cercò di spiegare che le donne non erano merce di scambio; poi scoppiò a ridere, ma solo dopo aver fulminato lo slavo con un’occhiata che assomigliava allo sguardo che passa attraverso il congegno di puntamento a cannocchiale a 4 ingrandimenti e diametro 1,90 di una carabina Mannlicher Carcano C2766 calibro 6,5 con otturatore modificato: tradizionale, sicura, affidabile.
Paula decise di far vedere a Fiocco il campo di concentramento di Dachau. In un museo di Monaco era in corso una grande mostra sull’arte degli anni Trenta in Germania, quella che i nazisti definivano “degenerata”, in quanto non rispettava gli stilemi degli acquerelli prodotti da Adolf Hitler. Fiocco aveva visitato la mostra, non tanto perché era interessato ai quadri di Otto Dix, di cui non gli importava granché, ma perché era un giovane meccanico appassionato di automobili e alla mostra avevano esposto la prima Volkswagen antenata di un’auto leggendaria, il “Maggiolino” disegnato nel 1938 dal boemo Ferdinand Porsche, ex idraulico di grande talento e titolare di uno studio di ingegneria tra i più attivi nello sviluppo di nuove tecnologie per l’esercito nazista: non solo automobili, ma anche carri armati e veicoli anfibi. Tanto che nel 1945 venne arrestato e rinchiuso per 22 mesi in un carcere francese. “Non era giusto”, diceva Fiocco. “Era una famiglia di geni. Il figlio Ferry aveva fatto la Porsche 356, bellissima, con tutte quelle curve tipo il Maggiolino. E il nipote Butzi ha creato la Porsche 911 nel 1963. Un mito. La gente va matta per queste cose. Ho letto che uno sceicco arabo ha ordinato sette Porsche 959 al Car delivery center della Porsche, ma nel contratto c’era scritto che i colori dovevano ricordare la luce del deserto nei vari momenti del giorno, dall’alba al tramonto; e così gli hanno fatto l’arancio-perla per il sole che sorge, il beige-Sahara, l’azzurro-indaco del cielo arabo all’imbrunire, insomma sette colori solo per lui”.
Paula non approfondì l’argomento, ma gli disse che poteva considerare la visita al lager come una specie di optional della mostra. Si limitò a dirgli: “Sono tutti uguali. Ti dice nulla il nome Quandt?". No, a Fiocco non diceva niente, quel nome. E in ogni caso: tutti uguali, chi?

Una strada stretta e trafficata, percorsa da mezzi pesanti e da automobili molto più ordinarie delle saettanti Porsche 911 Carrera GT che Fiocco considerava il top della gamma, portò a quello che restava del lager. I clamori di Monaco erano lontani. Il lager era stato trasformato in museo.
Nel “museo” venivano offerti degli opuscoli in diverse lingue, compreso l’italiano. Fiocco cominciò a leggere: “Il primo campo di concentramento nazista fu istituito il 22 marzo 1933 in una fabbrica di munizioni, fuori mano, nelle immediate vicinanze di Dachau. Avversari politici del nazismo, ebrei, religiosi e cosiddetti elementi indesiderabili vi venivano isolati, come nemici del regime nazionalsocialista. Nel 1937, il campo, progettato per 5000 detenuti, si dimostrò troppo piccolo. I deportati stessi dovettero costruire un campo più grande, che fu pronto nel 1938. Secondo l’ufficio di registrazione del campo, risultano più di 206.000 i deportati dal 1933 a1 1945; senza contare il numero rilevante di coloro che non furono registrati”.
Fiocco e Paula visitavano il lager senza scambiarsi una parola. Fiocco ricordava vagamente foto d’epoca e sequenze di film; si sforzava d’immedesimarsi, cercava di concentrarsi sulla “tragedia”; eppure, malgrado quella generosa manifestazione d’interesse, non provava un bel niente: perché visitare Dachau, quando, invece, avrebbero potuto impiegare la mattinata con una visitina ai magazzini SUMA? E quale lezione trarne, da quella mattanza di uomini contro altri uomini: che l’uomo si abitua a tutto, meno a se stesso?
Certo, si poteva anche provare una certa emozione almeno alla vista degli alberi piantati dai deportati, lungo la strada del lager. Guardarli, così alti, e immaginare che un ebreo o un comunista o uno zingaro avevano piantato quegli alberi sessant’anni prima, poteva fare una certa impressione. Ma più che segni di vita, sembravano simboli di morte: croci di legno senza linfa.
Le baracche di legno erano ben allineate e, all’interno, pulite. Le pareti erano spoglie. Ma che cosa ci si poteva aspettare: un manifesto di Brad Pitt?
In ogni baracca alloggiavano 208 deportati. Nei casi di sovraffollamento, in ogni baracca venivano stipati sino a 1600 detenuti. All’interno, non c’erano letti, ma una sequenza razionale di espositori.
Nel grande piazzale, mattina e sera, si svolgeva l’appello. Nell’unica entrata, sul cancello, doveva essere scritto Arbeit macht frei: si calcola che dieci milioni di persone, gli “schiavi di Hitler”, furono costrette dai nazisti a lavorare per le industrie tedesche. Profitto e miglioramento della produttività servono a rasserenare il potere economico. È così che la grande industria trova nel nazismo il coronamento di un’ossessione: la convenienza economica. Dei nuovi schiavi si utilizza tutto: il 6 agosto 1942, il WVHA indirizza ai comandanti dei capi di concentramento un’ordinanza “in base a cui in tutti i campi di concentramento i capelli tagliati devono essere recuperati”. I capelli verranno trasformati in feltro industriale e filati; i capelli delle donne diventeranno calze per gli equipaggi degli U-Boot e per il personale delle Ferrovie tedesche.
Il lavoro. A Paula era capitato spesso di riflettere sull’idea nazista dell’”annientamento attraverso il lavoro” o del “lavoro come ultima tappa verso l’annientamento”. Ma ci faceva sopra dei ragionamenti così difficili e segreti che non trovava mai il modo di condividerli con altri, figuriamoci con Fiocco. A volte faceva dei tentativi, come quando, con Fiocco, aveva accennato ai Quandt, ma sbagliava stile, tempo e metodo, perché non aveva alcuna conoscenza delle regole basilari della retorica e della scienza della comunicazione. Ad esempio, se avesse detto Varta, le batterie, o Bmw, le automobili, invece di Quandt, avrebbe catturato subito l’interesse del meccanico Fiocco. Ma Paula non era capace di usare certi stratagemmi.
I Quandt. Günther Quandt, ricco erede di una famiglia di industriali tessili, vedovo, con due figli, aveva sposato Magda Ritschel, da cui ebbe un figlio, Harald, e da cui divorziò nel 1931. Subito dopo, Magda sposò in seconde nozze Joseph Goebbels, il famigerato gerarca che diventerà il capo della propaganda nazista. Adolf Hitler fu testimone delle nozze.
Quandt supera la crisi di Weimar e l’iperinflazione, quando la gente andava a fare la spesa con la carriola colma di banconote; acquista aziende decotte e le rilancia, capisce che l’industria degli armamenti ha un futuro radioso. Il matrimonio dell’ex moglie Magda con il gerarca nazista diventa un affare di famiglia. Günther accumula una montagna di contratti e costruisce un impero: accumulatori e batterie, munizioni e armi, tessuti militari, metalli leggeri. Siede in 29 consigli di amministrazione di grandi aziende, come la Daimler-Benz e la Aeg. Gli “schiavi di Hitler” producono batterie, ad Hannover, e la ditta di Quandt eccelle nella contabilità, badando al turn-over, prevedendo la morte e il subitaneo rimpiazzo di tre lavoratori al giorno, che le SS forniscono senza particolari problemi. Sono aziende eccellenti, tanto che l’Afa (Accumulatoren-Fabrik AG), che più tardi diventerà Varta, già otto settimane dopo la fine della guerra fornisce batterie agli occupanti inglesi: gli Inglesi non perdono tempo a turarsi il naso. Il vecchio Günther muore nel 1954. Il figlio Herbert scala la Bmw di Monaco, il figlio Harald continua ad occuparsi di armi: un divieto morale gli impedisce di costruirle, ma nessuno gli impedisce di produrre gli strumenti e i macchinari per farle. La Bmw era una casa automobilistica in perdita, ma, nel 1969, il giovane manager Eberhard von Kuenheim porta l’azienda al successo mondiale. La Bmw entra nella “Fondazione per il risarcimento dei lavoratori schiavi”, e i Quandt contribuiscono al fondo con 5 milioni di vecchi marchi, circa 2,5 milioni di euro. Sono le regole del gioco: anche i debiti morali rientrano nella contabilità ordinaria, nell’ordine delle cose e dell’economia.
Durante il nazismo, le grandi aziende facevano ricorso ai lavoratori schiavi. Era la norma. Paula lo sapeva bene. La I.G. Farben fu la prima a utilizzare quei corpi in offerta straordinaria, ad Auschwitz; la prima, ma non l’unica. Sì, proprio lei, la I.G. Farben, Interessengemeinschaft Farben, l’associazione di “interessi comuni”, il conglomerato, la reginetta del monopolio, il supermercato della chimica, il cartello farmaceutico, l’idea “geniale” nata dal cilindro dei capitalisti di Wall Street uno sciagurato 9 dicembre del 1925, con affiliate spalmate in tutto l’Occidente, con i finanzieri americani che sedevano nei consigli di amministrazione, e che poi diventò il grande finanziatore dell’ascesa di Adolf Hitler, l’uomo che avrebbe dovuto fermare il comunismo e preservare il capitalismo. È inutile fare i nomi - Hoechst, il direttore generale Carl Bosch, Bayer, BASF, Badische Anilin und Soda Fabrik - perché la lista di nomi è così lunga da raggiungere tutto l’immaginabile, perché tutti hanno collaborato. Lei, la multinazionale che bastava a tutti e principalmente a se stessa, quando produceva lo Zyclon B, il gas dei campi di sterminio prodotto negli stessi campi di sterminio, e che diede origine ad altre multinazionali, come un mostro che genera altri mostri. Fammi un nome, dimmi una marca, un prodotto, quasiasi cosa che ti venga in mente, oggi: il pieno di benzina, un dentifricio, un’auto, una foto ricordo, la polizza assicurativa, una pentola, il frigorifero, il conto corrente, una lampadina, un libro, una colla, una pannocchia di granoturco, una camicia, un antibiotico, il gas, una pistola, una vernice spray, un pollo, la lacca per le unghie, un surgelato. Tutto. Tutto, oggi, sa di quella fabbrica di morte, a IG Auschwitz, l’associazione di interessi comuni. Perché c’è un filo, non un filo di follia, ma una cosa concreta e palpabile, un filo spinato che lega gli anni della nostra vita alla morte di quegli uomini, di milioni di uomini, una matassa di metallo che parte dai consigli di amministrazione sparsi in tutto il mondo, e che hanno interessi comuni negli Stati Uniti, in Inghilterra, in Italia, in Germania, in Francia, dall’Atlantico al Pacifico, dappertutto, che attraversa gli Stati e le ragioni sociali, un filo srotolato da un esercito di muti rappresentanti, agenti di commercio, consulenti, quadri e dirigenti, consiglieri, delegati, comunque li vogliate chiamare, un esercito senza volto e senza bandiera, senza età, senza bagagli, né memoria, né foto ricordo, né souvenir, senza diario perché non lascia traccia di sé, che attraversa le nostre vite, che sembra che ci porti energia come una pipeline, e invece ci attorciglia, trasmettendoci un flusso continuo di morte e di conflitti. In nome del controllo del mercato, che è uguale al controllo della nostra vita.
Ma dopo, caro mio, dopo non c’è stata più giustizia. Né pace. Perché non c’è pace senza giustizia. Ti affascineranno con le parabole dei sette-colori-del-deserto-sette-Porsche e con il mito del motore, della velocità e del progresso, con le dinasty e le grandi famiglie e le nobiltà al borotalco e pedigree certificato dal clero consenziente, con le scoperte scientifiche di cui non sentivi la minima mancanza, come la ricetta della benzina sintetica venduta dalla I.G. Farben alla DuPont; si insinueranno nelle nostre emozioni, ti faranno sentire in corsa, dietro a un carrello della spesa, e a un certo punto ti diranno stop, abbiamo bisogno di te, ti diranno di andare a combattere contro un nemico che non conosci ma che ti descrivono così minuziosamente, tanto che ti sembra quel vicino di casa che ti vive a fianco da sempre e che hai sempre odiato, una spina nella carne, non sai da quando, non ti ricordi perché. Ti insinuano l’odio, ti spingono al conflitto, e dicono che loro, noi siamo i giusti, e gli altri sono gli ingiusti, i cattivi, gli indiani, i nazisti, i musi gialli, i comunisti, le spie dell’Est, i terroristi, gli americani, gli israeliani, gli arabi e i musulmani, forse un’etnia sperduta nell’immensità dell’atlante, qualcuno che prima era un amico e poi è diventato un nemico, non sai nemmeno perché, non sai chi l’ha armato, non sai perché è armato. Non ci capirai più un fico secco, quali sono i veri amici e quali i veri nemici, e che senso abbia combattere, in questa girandola di guerra e pace, di benessere e carestia, di ripresa economica e di disastri finanziari, ma ti diranno di decidere velocemente, anzi ti ricorderanno che non c’è tempo per riflettere, toglieranno i figli alle madri e ne faranno dei combattenti, ti diranno di farlo in nome di qualcosa, qualcosa che possibilmente abbia un nome semplice, breve e facile da ricordare, e se è una trinità è meglio, perché anche i numeri hanno un significato, ad esempio ti diranno di combattere nel nome di Dio Patria Famiglia, il cartello perfetto, che sarà un modo di dire i loro comodi.
È il potere, caro mio, che crea i conflitti, perché è così che si autoalimenta, che si conserva, si rigenera e si perpetua. Nei secoli dei secoli dei secoli.

Ma perché raccontare queste cose a Fiocco? A Fiocco bastava sapere che un’automobile è bella e veloce, che una batteria è performante e affidabile. Come se un’auto e una batteria fossero soltanto tecnologia o i frutti elaborati di una ricerca di mercato, una cosa asettica, e non il risultato di una storia complessa: il lavoro, lo sfruttamento di un uomo da parte di un altro uomo, con giusto profitto.
La cosa più buffa è che, adesso, i campi di concentramento, questi grandi bacini da cui le industrie attingevano a piene mani, templi del “lavoro che rende liberi”, erano diventati degli spazi aperti alle visite nel tempo libero. Svuotati, sollecitavano un vuoto di memoria: un vuoto incolmabile. Perché tenerli in vita, si chiedeva Paula, quando su quelle cose non si diceva tutto, e comunque non si diceva la cosa per lei più importante: il lavoro - con i nuovi schiavi, e non in una società primitiva, ma in un paese mosso da un’intelligenza complessa, dai filosofi, dai pittori, dalle musiche di Bach e Beethoven, dal pianoforte: ma vi rendete conto di cosa sia un pianoforte? - aveva raggiunto un costo vicino allo zero: la mission impossible di ogni amministratore delegato che, in cima all’Olimpo, e per effetto dell’iperventilazione, crede che, alla fine della scalata del proprio impero, sia arrivato il momento di sostituirsi a Dio, perché “i tempi sono maturi”, perché “è ora di agire”, perché Dio, forse, e dico forse, è diventato troppo buono e accomodante.
Attraversando il campo di Dachau, Paula cercava di quantificare in silenzio i costi di questo grande bacino di carne umana, di braccia e di mani. Nel Wirtschaftsgebäude si trovavano le cucine, la lavanderia e il “bagno” per le torture. Nella Revierbaracken, l’infermeria: il prof. Schilling vi praticava le sue ricerche biochimiche. E poi il forno crematorio. E le camere a gas con le docce pendenti dal soffitto: grandi stanze bianche nude piastrellate. A Dachau trovarono la morte 31.951 deportati, ma queste erano soltanto le morti registrate: più o meno, lo stesso numero di abitanti della cittadina natale di Fiocco. Un paese che scompare d’improvviso, che perde la memoria, coperto dal fango e dalle acque giallastre di una diga difettosa: papà e mamma, cugini e zii, amici e nemici, il maresciallo e il farmacista, il benzinaio, i professori, giudici e avvocati, preti e puttane, soffocati e inghiottiti in un buco nero nello stesso istante. E se qualcuno si salva, se alcuni restano, non è detto che siano i migliori. Non si saprà mai chi sono i migliori o i peggiori, perché non ci sarà più possibilità di confronto.
L’Inno alla Gioia di Beethoven, uno dei musicisti preferiti dai nazisti, dice: Alle Menschen werden Brueder, tutti gli uomini saranno fratelli. Già. La fratellanza universale. Chissà perché, in tutto il mondo, i politici della Destra hanno sempre portato la mano al cuore durante i loro discorsi più ispirati. Una derivazione dall’iconografia cristiana. Prima, si pensava che fosse il fegato la sede della felicità e della tristezza. Oggi è il cuore. Un muscolo che lavora, senza pause. Più è felice, più lavora, e così si libera dei cattivi pensieri.
Ma lì il cuore si era come fermato. Dachau, adesso, sembrava immobile. In pausa. Come un virus o un bacillo dormiente, surgelato e ben conservato. Eppure, tra gli anni Trenta e Quaranta doveva avere il suo bel daffare. Ma Fiocco non aveva il coraggio di svelare le proprie perplessità: trovava più inquietante uno stadio vuoto, non Dachau. Inquietante, nel senso di poco allegro. Tutto qui.
“Cosa ne dici, Paula?”.
Paula rispose: “Io l’ho già visto”. Ma non sembrava né turbata né annoiata. Era come una mamma che accompagna il bambino a vedere il suo primo film al cinema, per cui non contano le proprie emozioni, ma quelle del bambino. E la mamma scruta il bambino con curiosità, controlla le sue espressioni, le sue sensazioni, e lì cerca la propria vera identità, tutte le risposte che l’adulto crede di aver perso nel fondo della propria anima.
Ma Fiocco sembrava indifferente. “Sai cos’è... è questo vuoto che non mi dice niente”.
Paula si chinò sulla ghiaia e giocò con delle pietroline, facendole saltare. Le pietroline di Dachau. “Mia madre mi ha portato qui una domenica mattina. Non ero una bambina, ero già abbastanza grande. Avevo appena trovato lavoro all’ipermercato, dovevo cominciare il giorno dopo, il lunedì. Questo posto era vuoto, come è vuoto adesso. E quando vedi un posto così grande e così vuoto, ti chiedi solo una cosa: dove sono andati?”.

Quando ritornarono a Monaco, era sera. Fiocco aveva ancora in testa quell’eco dei passi, quel crac-crac-crac sulla ghiaia, quegli ossicini nella testa. Nient’altro. “Che cos’hai?” gli domandò Paula. “Niente”, rispose Fiocco, “ho un po’ di mal di testa”.
“Speriamo che non sia l’influenza: qui ce l’ha un sacco di gente”, disse Paula. “Certo che le epidemie sono proprio un bell’esempio di solidarietà umana...”.
Fiocco e Paula, più tardi, parlarono di Dachau con la signora Gerda Fischer, madre di Paula. E la signora Fischer (parlava bene l’italiano: da quindici anni, faceva le vacanze in Italia; ed era così che Paula aveva conosciuto Fiocco: durante l’ultima vacanza in Italia) disse subito che lei, allora, era una bambina. Rispose con fastidio alle domande di Fiocco, e all’inizio sembrò un po’ vaga, quasi reticente: “Da sessant’anni, ci fanno sempre le stesse domande, e noi diamo sempre le stesse risposte, quelle che la gente vuole sentire”.
Era una donna stanca, la madre di Paula. Era divorziata, ma aveva conservato il cognome del marito; viveva sola in un appartamento composto da un piccolo soggiorno, camera da letto, cucinotto, bagno senza finestra e moquette beige nel pavimento per non disturbare i vicini con il tacchettìo della mattina. Si svegliava ogni giorno alle sette del mattino per andare a lavorare come segretaria in un grande studio legale; nella pausa di colazione faceva un corso intensivo di computer per non essere tagliata fuori dalle più giovani; la sera si portava il lavoro a casa per non essere scavalcata da qualche nuova arrivata; poi cenava per non essere costretta a morire di fame; e infine andava a dormire per non essere costretta, il giorno seguente, a morire per la stanchezza. Anche lei aveva partecipato alla ricostruzione del modello economico tedesco, con quel senso di comunità di popolo e di identità nazionale che sembrava l’unica medicina per uscire dall’ossessione della Seconda guerra mondiale, per riconquistare la dignità persa nei campi di lavoro e di sterminio; come tutti, ne aveva spazzato via le macerie, e adesso ne pagava le conseguenze: beveva come una spugna.
Frau Fischer si fece un goccetto e disse: “E lei che cosa mi sa dire del fascismo in Italia?”.
“Non mi interessa la politica”, rispose Fiocco.
“Ah sì, dicono tutti così. Che impressione le ha fatto Dachau?”.
Fiocco non sapeva che cosa dire, ma cercò di farle una cosa gradita, ricavandone una bella figura, riprendendo l’immagine evocata da Paula: “È una cosa proprio vuota... Ha ragione Paula... Quando vedi un posto così grande e così vuoto, ti chiedi solo una cosa: dove sono andati tutti quanti?”.
“A fare la spesa”, disse la signora con una smorfia. “Certo che Fiocco è un nome strano... Quanto si tratterrà in Germania?”.
“Il mio vero nome è Maurizio, ma tutti mi chiamano così. Non mi tratterrò molto: altri due giorni”, rispose Fiocco.
“Meglio così”, rispose asciutta la signora Fischer. “Come si dice in Italia, l’ospite è come il pesce: dopo tre giorni va consumato”. E sghignazzò.
Alla televisione, la Bayerischer Rundfunk mandava in onda un film del 1939, Der ewige Quell, con Lina Carstens. Una cosa preistorica. Frau Fischer crollò davanti al televisore e cominciò a russare.
Ci fu una pausa. Paula aveva domandato a Fiocco se gli piaceva la Germania. Fiocco aspettò un bel po’ prima di rispondere in modo compìto:
“Senza dubbio, apprezzo il rispetto della natura e la pulizia nelle strade”.
A Fiocco, sembrò che la signora Fischer avesse sussurrato, nel sonno, qualcosa in italiano:
“Coglione”.
Fiocco era sicuro di aver capìto male. I vecchi, pensò. I vecchi non sono mai contenti. Ma, in ogni caso, stretto tra lo sguardo triste di Paula e quello ormai assente della signora Fischer, Fiocco cominciò a intuire un certo congelamento dei rapporti. Perciò approfittò di un’altra pausa, per esprimere una sincera opinione: “Però qui in Germania fa freddo”.
La mamma di Paula veniva da una famiglia ebrea, e lei era l’unica della famiglia - padre, madre, cinque figli - ad essere sopravvissuta allo sterminio nazifascista; le era rimasta vicina soltanto una cugina. Non parlava volentieri del passato. Anzi, non ne parlava più. Quattro anni prima, lei e la figlia erano andate in Italia, per la solita vacanza. La signora Fischer aveva amato, sino ad allora, un paese che le sembrava, tutto sommato, tollerante; un paese pieno di sole, mediterraneo, che per sopravvivere non ha bisogno, a scadenze regolari, di un rapporto orale con qualche psicoanalista austriaco. Un giorno, Paula era rientrata in albergo dopo aver preso il sole in spiaggia. Strada facendo, aveva visto sui muri delle scritte antisemite, razziste e xenofobe, molto volgari: nessuno aveva provveduto a coprirle, cancellarle, eliminarle. Lei non ci aveva fatto neanche caso. Ma aveva trovato la madre turbata. Tanto che, al ritorno in Germania, la signora Fischer aveva radunato figlie e nipoti, a cui aveva annunciato: “State attenti: sono tornati”. Da allora aveva cominciato a bere, e non aveva più smesso.

G. G. (Disegno di Gaspé)