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L'Italia al tempo del neofascionismo

Siamo sommersi dalle parole (e noi, da qui, aggiungiamo il nostro modesto contributo). Ma non c’è una sola parola che possa riflettere, descrivere, evocare, insomma spiegare in sintesi i tempi che viviamo. L’abbiamo cercata, ma non c’è, non esiste. Perciò, giusto per complicarci la vita, abbiamo pensato che, quando non si riesce a trovare qualcosa, bisogna inventarla. È l'unico modo. E alla fine l’abbiamo trovata, la parola che non c’è: è il neofascionismo.

(2007) Un po’ fascio, un po’ fashion, non si sa che cosa sia predominante, ma il neofascionismo è sicuramente caratterizzato da quel primo elemento che nelle parole composte significa “nuovo” o “recente”, o persino “moderno”, e che spesso fa da comodo passepartout alla mancanza di idee o al riciclo culturale: neo.
Il neofascionismo è un movimento, una congregazione, uno stato d’animo, una trama invisibile, o che altro? Un neologismo complesso che riassume i misteri inspiegabili della cultura del nostro tempo, una voce che racconta questa malinconica società italiana rimbalzata dalla disillusione della sinistra alle acque morte della destra.
Del neofascionismo, potevamo trovare i primi accenni già nel film di Virzì “Caterina va in città”. Dove turbavano, come succede nelle migliori commedie “all’italiana”, i quadretti macchiaioli del regista livornese: l’adolescente Caterina si trasferisce dalla provincia a Roma, e il suo candore disvela tutti i gironi della babele umana contemporanea, la commistione di generi disumani di una società blobbista: adolescenti viziati ed egoisti, consumismo sfrenato, intrallazzo e intrighi politici, stupidità. La sinistra svuotata, nevrotica e omologata che si confonde, nella spartizione del potere, con una destra festaiola e volgare, che crede di proiettarsi nel futuro soltanto perché le fa comodo cancellare il passato, semplicemente vergognandosi dei camerati a braccio teso.
Il neofascionismo è un orrore di comunicazione: non comunica niente, ma ha voce. Perché si fa vedere, si mostra, si impone. È prepotente, ma non è armato, tutt’al più si fa accompagnare dalla scorta armata. È un mandante. È predominante, ma è tutt’altro che dinamico. Perché è un blob che si espande stando fermo. Non comunica valori, non propone, ma vende e scambia. È merce. Non elabora, non mastica: è attaccato a una flebo incolore. Ma è capace di reazione logorroica, fatta di parole, di sassi verbali. Il suo podio naturale è perciò il talk show: l’arca moderna che ha abbattutto i vecchi compartimenti stagni, la separazione delle classi nei vecchi transatlantici. L’open space della banda larga e del digitale terrestre, che mette subitamente in contatto cuori infranti e malati terminali, monsignori e moncheri col rossetto che ravviva il lifting, calciatori e criminologi, politici ed ex sovrani, imprenditori e praticoni, rampolli e galline, battone e veline, velinari e velisti, intellettuali e precari sull’orlo del suicidio. Che cercano udienza. Che trovano audience.
Il neofascionismo, che nell’albero genealogico sociopolitico italiano è erede del trasformismo, è commistione di generi: è un coacervo di misteri inspiegabili, nel senso che li puoi spiegare soltanto con l’immaginazione, cioè non con la logica matematica, ma con la cieca fede (nel capo, nel partito, nella chiesa, nell’azienda o nel proprio consulente finanziario). Non si capisce come possano condividere la stessa piazza rigurgiti di monarchia e sinistra alternativa o di governo, cleroformio, postfascismo e nobiltà. Dice che si sono persi i valori di un tempo, ma ciò che contraddistingue questi tempi è l’ambiguità. Oggi vedi una Borromeo da Santoro che fa l’intervistatrice-opinionista; la Santaché che diceva di condurre una società di marketing e che oggi fa un libro sulle donne musulmane; Oliviero Toscani, monocorde fotografo di modelle da catalogo che è diventato il genio pubblicitario, e che passa dall’imprenditoria non olet dei Benetton ai radicali liberi; e Dolce & Gabbana che vestendo gli ignudi di nero e argento costituiscono una “mission”; oppure il custode dell’immagine Fiat, quel Lapo Elkann che finisce in stato comatoso dalla casa di certi travestiti all’ospedale, in overdose: con la legge della destra sulle droghe dovrebbe finire in gattabuia o da Muccioli, ma a lui viene data l'opportunità di un viaggio liberatorio negli Stati Uniti, con il perdono di un’opinione pubblica commossa e addomesticata da un massiccio lavoro di pierre.
Il neofascionismo è senza faccia, ma ha una facciata impegnata nel continuo restauro. Non è leggero, non è un velo, è un pesante sudario damascato. Sa e fiata di morte. È volgare, appariscente perché vuole soltanto apparire. Non ha simboli. Ma simboleggia. Si atteggia.
Ma come si mostra il neofascionismo? Difficile riconoscerlo, individuarlo subito. Ma se è fondato sull’immagine, avrà delle sue icone. Certo. E noi ne abbiamo scelto tre. Significative.

La Marianne di Cuneo.
La prima, è uno scatto di grande significato rubato quando i giovani studenti manifestavano davanti a Montecitorio la propria opposizione alla riforma Moratti, allora ministro dell’Istruzione. Daniela Santanchè, musa di Storace, parlamentare di AN, si rivolse a loro con una posa plastica con alle spalle Montecitorio. Un simbolo. Che ha dato origine a un’immagine sacra della Destra. Perché questa madonna del terzo millennio, mechata e lampadata a intermittenza, rappresenta, in quella foto, tutto il fermento nero e mortuario del neofascionismo. È l’immagine che segna il vero inizio del neofascionismo, un’icona che in futuro varrà quanto la Marianne dei francobolli francesi, anche se non dello stesso spessore morale: se la Marianne francese era coraggiosa e protettrice, forte nella guerra e nella pace, la Marianne Santanchè è forte nella guerra; se la Marianne era laica e figlia dei Lumi, la Santanchè è figlia delle lampade UVA. È lei, senza dubbio, il volto della nuova Repubblica, nelle varianti alla marinara, alla provola, alle quattro stagioni, quando sarà abolità la Costituzione ed entrerà in vigore il Menu Turistico.

I transgressivi.
E la seconda icona? Qui passiamo dal vuoto al sottovuoto e truzzo. Le bancarelle dei mercatini rionali traboccano di mutande Dolce & Gabbana, altra icona del neofascionismo. Così il marchio dei Cip & Ciop della cupola della moda è diventato la cintura gibaud, il sottopancia dei transgressivi: una popolazione variegata che eredita i figli dei coatti di Pasolini, l’ultra destra ansiosa di uscire dai seminterrati e di vendicare i propri “martiri”, una classe neoricca e asintomatica che non si riconosce più in niente ma soltanto allo specchio, illetterati, i neomostri del weekend famolo strano o memento audere semper. Come tutti gli stilisti in deficit di percorso regolare degli studi, raggiunta la maturità e la serenità negli affari, anche D&G sentono il bisogno di spendere ciò che avanza nel bilancio e di accelerare un percorso che, dal corso di taglio e cucito in poi, diventa la via culturale che monda i brufoli, i nei, le imperfezioni del curriculum, della carriera, delle biografie non autorizzate. Vulgus vult decipi, ergo decipiatur, come disse il cardinale. Tanto nessuno capisce quello che fanno, né ciò che dicono. E così Cip & Ciop si spendono in pubblicità, spot e cartelloni, cercando di fare accettare a tutti i costi, o almeno secondo i fee concordati con i venditori di spazi, il proprio modello di vita. Per la pubblicità di un orologino marchiato D&G fanno vedere una coppia di giovani a cena, poi sul letto in piena flatulenza, prima lei con una scoreggina, poi lui con uno scoreggione: uno spot fatto con il culo, insomma. Perché questa è trasgressione. Questa è cultura.
Poi inondano le città europee, prima con dei manichini con pistolino e coltello, poi con un’affissione di corpi luccicanti, uomini impomatati e vaselinati, e una donna-manichino supina succube della forza che si presume bruta. La Gran Bretagna invita a “tenere presente la responsabilità che hanno nei confronti dei consumatori e della società”. Lo fa elegantemente, come quando si fa notare a uno zotico che non è il caso di sputare per terra. Del resto sono italiani. E loro rispondono che si sono “ispirati all’arte napoleonica”. Chissà che cosa volevano dire, chissà che gli hanno suggerito di dire, chissà che cosa hanno capito. Arte “napoleonica”? Ispirazione? L’importante è ispirarsi, trovare un alibi culturale, che sia una crosta di un altro secolo o un improbabile periodo storico. L’ispirazione giustifica i mezzi. E l’ispirazione è qualcosa che fa molto respiro, inspiro, sospiro. Fico. Molto hip-hop. Ritmico. Romantico-trasgressivo. E dài che piace.
E poi la Spagna, che gli spagnoli non tardano molto a spaccarsi le palle. Perché gli iberici hanno detto subito, a Cip & Ciop, che quell’affissione “incita allo stupro, alla violenza contro le donne”, e che “quell’immagine rafforza atteggiamenti che al giorno d’oggi sono un crimine, attentano contro i diritti delle donne e ne denigrano l’immagine”. E al disgusto generale si è unita persino Amnesty.
L’immagine? Ma è questo il punto. Loro non vedono persone, un’attività del cervello, neurotrasmettitori, speculazione filosofica, conquiste sociali, diritti e sensibilità individuali, traguardi etici, scoperte scientifiche. No. Vedono soltanto un’immagine. Una visione pornografica dell’evoluzionismo: dalla scimmia, all’uomo, alla carta patinata. Lì è la fine, lì è tutto: consummatum est. Fine. L’uomo non conta perché conta soltanto la sua ombra, la sua immagine. La donna? L’uomo? Soltanto dettagli anagrafici. Alla fine conta l’immagine consumata, stampata, riprodotta, fotocopiata. Come si dice, carta canta. La donna? E l’uomo? Possibile che nessuno venga disturbato da quei corpi vaselinati? Non sono mica così perché sono appena usciti dalla doccia, quegli uomini. Sono siluri lubrificati, a norma aerodinamica. L’Autocontrol, che non è il nome di un preservativo, come potrebbero pensare Cip & Ciop, ma è il giurì spagnolo di autodisciplina pubblicitaria, boccia la campagna e chiede che venga ritirata. E loro replicano: “Ritireremo quella foto solo dal mercato spagnolo, loro sono un po’ indietro…cosa c’entra l’immagine artistica con il fatto reale? Vuol dire che la prossima stagione faremo una nuova campagna, mettendo una donna nuda sopra un uomo!”. Come se fosse tutto un problema di par condicio del kamasutra "artistico". Resta da capire che cosa c’entri l’ossessione di certi produttori di mutande e canotte con l’immagine artistica. Cip & Ciop rispondono piccati che la Spagna è un paese “arretrato”. Mentre loro, invece, sono avanzati. Ma chi glielo ha detto? Nessuno ha avuto la pazienza di spiegare ai neofascionisti transgressivi che fanno delle cose semplicemente stupide. Nell'accezione di "sbalordite".
Altro che eleganza. Qualche mese fa, il New York Times ha scritto che nel Made in Italy trionfa il banale, la mancanza di idee, ma soprattutto una volgarità da bordello: «Per la moda italiana è il tempo delle zoccole», con il termine desueto “trollop” rivolto a tutte quelle signore che vestono tigro-maculato, o con ammiccanti jeans strappati e tagliuzzati. L'accusa secca e inequivocabile: «Avete perso la vostra invidiabile raffinatezza. Nei vestiti, ma anche nel resto, come anni fa aveva per primo intuito Pier Paolo Pasolini».
Ma Cip & Ciop hanno fatto spallucce. Tutta invidia, hanno detto.

Senza parole.
La stupidità che sbalordisce è una delle caratteristiche del neofascionismo: la mancanza di significato certo, immediato. Ce ne rendiamo conto osservando un’altra immagine che consideriamo emblematica, una vera icona del neofascionismo. Viene dal mondo della comunicazione pubblicitaria. Ma è, come quella di Dolce & Gabbana o quella di Santaché, una comunicazione senza parole, afasica. E, dato che è senza parole (“cercando le parole si trovano i pensieri”, diceva Joseph Joubert), è volutamente senza idee, senza un pensiero. È l’immagine che pubblicizza lo spazio dedicato alla “contemporaneità” realizzato dalla Triennale alla Bovisa, a Milano. La Triennale: chissà perché questi nomi (biennale, triennale...) che dovrebbero riferirsi a situazioni episodiche, fanno pensare alle lauree brevi, alle scorciatoie professionali. Ma non è un caso.
Il committente, come si diceva, è la Triennale di Milano, altro ente meneghino su cui il berlusconismo, vero tutore del neofascionismo, ha messo le mani. E oggi, dentro la Triennale, c’è il presidente Davide Rampello.
Anche se nato in provincia di Agrigento, Rampello è un nome noto a Milano, dove è approdato negli anni Sessanta. Un factotum dinamico e multidisciplinare trasferito negli anni craxiani alla Fininvest, che passa senza traumi dalla direzione editoriale di Grand Gourmet alla Festa del Redentore: regista e partner di alcune società attive nel campo multimediale, direttore del centro ricerca e sviluppo Mediaset, direttore della comunicazione del Gruppo Fininvest dal 1994 al 1996, docente universitario presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore e lo IULM, presidente della Triennale di Milano, direttore artistico di numerose manifestazioni culturali e curatore di diverse mostre. La fortunata carriera, il vero battesimo artistico, comincia con l'avvento delle prime televisioni private. Lavora nella redazione di Dirodorlando, trasmissione per ragazzi condotta da Ettore Andenna, per Antenna 3 Lombardia e poi per Berlusconi nel passaggio da Telemilano 58 a Canale 5. Fa il direttore artistico di fiducia di Berlusconi e firma la regia di programmi come Pop Corn, Premiatissima, Risatissima e altri superlativi. Così lo ricordano i pubblicitari con la memoria lunga: “Eravamo alla fine degli anni Ottanta, anni craxiani. La Standa era di Berlusconi e Rampello ci girava intorno come regista. Era uno che non rinunciava a niente, si occupava anche delle cose più marginali. Per esempio, ricordo un filmino promozionale, una cosa senza valore, per l’apertura delle scuole: dovevamo vendere diari, penne e quaderni. Insomma, quella roba lì. E lui era presente. Tanto che fu lui a proporre come voce fuori campo un personaggio ancora sconosciuto, uno che diceva di fare il dj e si chiamava Fiorello. Beh, da allora sono cominciate due carriere strepitose, sotto l’insegna di Standa, “la casa degli italiani”. La base per il lancio della “casa delle libertà” di Berlusconi e del suo messaggio della “discesa in campo” con il famoso spot della calza, con l’effetto morbido e flou. Lì c’era la mano di Rampello. Forse è anche per questo motivo che Rampello è ancora legato a quel periodo: tanto che nel board di una delle sue società c’è Luca Masia, neodrammaturgo sperimentato dallo stesso Rampello alla festa di Santa Rosalia di Palermo, che all’epoca faceva l’art director e si occupava anche di Standa”.
Amici, conoscenti, collaboratori, sodali uniti dalle consulenze incrociate. A Milano, consumata miseramente l’avventura della sinistra pigliatutto anche in ambito culturale, ci sono incarichi vacanti a iosa e uno spazio vasto da conquistare, e 14 anni di amministrazione della destra hanno dato i loro frutti. Pubblicità, moda, design, televisione e qualche pezzetto di cinema, editoria, sono settori in cui si avventurano consulenti e piccole società, una trama in cui compare spesso la Triennale, ma che passa attraverso le università, le agenzie di pubblicità, Mediaset, piccole società multimediali e la formazione professionale finanziata da Regione Lombardia e Fondo Sociale Europeo. C’è un gran via vai di personaggi a Milano; una marea di “consulenti”; dinamismo soprattutto nell’elargizione di incarichi. Tanto attivismo dovrebbe produrre figure emergenti, e persino qualche genio. Eppure mai come in questi tempi la produzione culturale è stata così piatta, inconsistente, col ventre molle. Perciò viene da pensare che il gran daffare sia semplicemente un grande affare.
Indubbiamente, con la presidenza Rampello la Triennale di Milano ha accolto molti più visitatori che nel passato. E questo, di per sé, è un successo. Ma la fruizione passiva di eventi cosiddetti culturali, anche se dispendiosi ed elargiti in grande quantità, non ha fornito stimoli sufficienti per aprire nuove strade o per muovere la crescita di nuovi talenti. Un esempio. In Italia ci sono ben 100 scuole di design, e oltre metà di queste scuole si trova in Lombardia. Il “design” è di moda. Tanto che negli ultimi 4 anni il numero degli iscritti alle lauree di design è aumentato del 275 per cento. Una cifra esponenziale, micidiale. Sembra che i ragazzi italiani che non vedono l’ora di vendere qualche progettino di abat-jour non siano sufficientemente informati sul fatto che le fabbrichette italiane hanno bisogno di tornitori e di avvitabulloni, non di designers (e nessuno che voglia seguire le orme di Victor Papanek, niente design per il Real World, tutti genietti che progettano per il ricco mondo irreale). Certo, la vetrina di Milano, con le sue mostre, i convegni, i corsi sperimentali, il gran via vai di starlets straniere della lampada o della poltroncina, può creare un’allegra illusione per migliaia di studenti in odore di futura disoccupazione cronica. Perché Milano, con le sue luci della ribalta a intermittenza, illude gli sciocchi. Milano che consuma, ma non produce. E se prova a misurarsi sul piano delle idee e della creatività, scopre una realtà ben lontana dalla leggenda del “made in Italy” evocata a sproposito da molte cicale parlanti: una drammatica povertà di cervelli, una micidiale prevalenza di cretini.
Qualcuno lo ammette, ma siamo ancora al livello di sintomi, di patologia non conclamata. L’ADCI è un’associazione che raccoglie molti creativi pubblicitari italiani e che ogni anno si riunisce per selezionare e premiare i lavori che pubblicherà in un annual. Come è noto, la pubblicità, soprattutto in Italia, non è una disciplina sperimentale dell’arte, non è innovativa, ma si affida all’esistente, che sfrutta per fini commerciali. Per spiegarci meglio: la pubblicità non “inventerà” un regista, un illustratore, un musicista, uno stile, un’avanguardia, una corrente di pensiero, ma piuttosto utilizzerà un regista, un illustratore, un musicista, così come una tendenza, una moda e uno stile già affermati. E affidandosi all’esistente, la pubblicità e le aziende che ne fanno uso non corrono nessun rischio.
Se negli anni Ottanta la pubblicità ha provato a “fare tendenza”, quando gli osservatori, i mass media, le riconoscevano un ruolo in un certo senso immeritato, era perché si erano create delle nuove figure di pubblicitari agli antipodi dei facitori di Carosello, cioè più moderni, multidisciplinari, informati e, anche, con un certo talento tipico dei self-made men. Vent’anni dopo, con il drastico svuotamento e ridimensionamento delle agenzie pubblicitarie in seguito alle crisi cicliche dell’industria, non c’è stata nessuna trasmissione ereditaria di quel talento, né alcun rinnovamento. E il risultato è sotto gli occhi di tutti: la pubblicità senza qualità, nella vita degli italiani in poltrona che se la menano tra un talk shaw e un varietà, è diventata la pausa-pipì, un evento legato alle funzioni biologiche. Una cosa neutra come una tappezzeria ingiallita, ininfluente. Adesso, se ne rende conto la stessa associazione dei pubblicitari, che, presentando l’ultimo Annual e lo stato dell’arte nella propria disciplina, dice, testuale: “Decisamente sotto la media il numero dei lavori ammessi a presenziare sull’Annual del 2007 e ancora meno i lavori che hanno vinto ori, argenti o bronzi. Alcune categorie sono completamente senza Premi. Da notare che nessun lavoro è stato ammesso nella Categoria Studenti, che però aveva avuto una scarsa adesione dalle Scuole. Questa le sintesi dei lavori delle giurie degli ADCI Awards 2007 che, improntati da un lato a essere molto selettivi, dall’altro hanno sofferto di un livello qualitativo medio molto basso dei lavori iscritti”. Unanime il parere dei presidenti di giuria: “Qualcosa non va”.
Meglio tardi che mai: finalmente l'hanno scoperto, che "qualcosa non va". Ce ne accorgiamo osservando quest’altra “icona” del neofascionismo, l’immagine di cui parlavamo. Che cos’è? È il manifesto che rende nota la nascita della Triennale Bovisa. Un manifesto che si trova ancora in giro per Milano, per esempio nella metropolitana, e che scandalizza, non soltanto per la volgarità, quanto per la mancanza di significato. Cioè, è nella sua insignificanza la sua vera volgarità. Non abbiamo fatto nessuna indagine particolare, ma, nella stazione di Porta Venezia, abbiamo chiesto a un gruppo di ragazzi un parere sul significato di quell’affissione. La risposta: “Una che lo p... in bocca e nelle orecchie”. E la donna? "È compiaciuta", dice un sedicenne: usa proprio questo termine. Qualcun altro vede in quelle cose rosse dei mattoncini Lego ipertrofici.
Ancora una donna. Svilita. Basta leggere le frasi e i commenti che vengono scritti sui manifesti, col pennarello o la penna biro: irripetibili. Un viso di donna pallida (si presume per lo sforzo), con uno chignon che la rende delicata, candida, un po’ suorina, un po’ nobile e misteriosa come la dama con ermellino, si presta al gioco dei mattoncini Lego come sex toys. Una sorta di ready made rettificato dove la stupidità infantile di un Lego in bocca assurge a opera d'arte? No, non si capisce il messaggio. Poi ci spiegano che forse è un gioco erotico, che il simbolo della Triennale è una lettera T rossa, e che questi sex toys, quelle punte di Lego rosso, sono in realtà le tre punte di una T. La differenza con la dama con ermellino è che, qui, la profonda interiorità della donna viene sondata dai mattoncini invasivi. Interiorità fisica, viscerale, insomma materiale, non morale.
Per questo manifesto, a Milano c’è stata una petizione di trecento donne e uomini, cittadini offesi da questa immagine sciocchina. Ma, dal suol regno, Rampello fa finta di niente e replica con un auto-elogio della propria comunicazione pubblicitaria, che vogliamo segnalare, e che andrebbe esaminato con attenzione: “Sul fronte della comunicazione pubblicitaria, una struttura innovativa come la nuova Triennale Bovisa, dedicata all’arte contemporanea e alla sperimentazione di nuovi linguaggi, non poteva che presentarsi al pubblico con una campagna pubblicitaria originale e distintiva, realizzata dai migliori creativi della scena italiana (...). Sono state sviluppate decine di differenti proposte, tutte di grande impatto creativo. È stata infine scelta una campagna basata sulla forza del marchio TBVS e sulla volontà di puntare sull’impatto visivo più che sulla razionalità. Se una buona immagine vale più di mille parole, questo è il caso in cui una lettera vale più di mille immagini. La grande T rossa di Triennale Bovisa vive in una sorta di fusione con il volto di una donna. Ci si potrebbe chiedere se è forse la compenetrazione dell’arte con la vita di tutti i giorni, se è un’idea che si fa largo nella testa della gente, oppure è la Triennale che riempie nuovi spazi o la vittoria dell’arte sullo stato dell’arte. Inoltre bisogna togliere il “Contemporaneamente” con cui si chiude il testo. Forse è tutto questo insieme. Ciò che conta veramente è che la Triennale abbia una nuova faccia e l’arte contemporanea un nuovo spazio. Contemporaneamente”.
Ciò che sorprende, in questo comunicato, è l’uso della lingua. Nel senso che è tanto incomprensibile che non si riconosce la famiglia linguistica d’origine, se italiano o dialetto austronesiano o malgascio, o irochese, o uralo-altaico. In breve: che cosa significa “inoltre bisogna togliere il “Contemporaneamente” con cui si chiude il testo. Forse è tutto questo insieme. Ciò che conta veramente è che la Triennale abbia una nuova faccia e l’arte contemporanea un nuovo spazio. Contemporaneamente.”? Noi pensiamo che non l’abbia capito neanche chi l’ha scritto. Ci sembra di capire, invece, che, visto che l’uso della lingua italiana è un obbligo relativo (del resto, chi non sa parlare usa i gesti, cioè le immagini), la Triennale bada soprattutto all’immagine, che “vale più di mille parole”. Ora, non si capiscono i pesi e le misure, né quale genio o filosofo cinese li abbia misurati e quantificati (“un’immagine contro mille parole”), ma si capisce che la Triennale giudica la donna compenetrata una “buona immagine”. Ma chi dice che sia una “buona” immagine? Lo dice Rampello, il regista di Risatissima.
Divertente, il tormento delle giustificazioni e dei doppi sensi. Il riferimento alla “compenetrazione”, che fa degli autori del manifesto i Rocco Sigfredi della Bovisa, dell’affissione e della posterizzazione municipale. E poi, certo, l’”impatto visivo”: la parola magica del neofascionismo. È tutto “impattante”. Anche lo sterco di cane che si incolla alla suola delle scarpe è impattante, ma questo è un motivo valido per mettere in mostra le nostre scarpe alla Triennale?
Per ingenua quanto stravagante ammissione degli autori e del loro mandante (“la volontà di puntare sull’impatto visivo più che sulla razionalità”), il messaggio non è razionale. E se non è razionale, allora che cos’è: è lo scemo del paese, che parla? È qualcosa senza significato, non significativa, insignificante. Non razionale.
Si mettano il cuore in pace, i moralisti, i non moderni, quelli che non sono neo, quelli che con capiscono “contemporaneamente” (e che perciò non si giudicano uno e trino come i geni dell’Art Directors Club Italiano), i trecento della petizione contro il manifesto immorale e schifosetto, quelli che si sentono disturbati da un’immagine offensiva che svilisce la donna. No, non c’è un significato. E comunque non è importante. Perché nel neofascionismo senza morale conta l’immagine misurata in termini di quantità “impattante”, ultimo stadio della versione pornografica dell’evoluzionismo: dalla scimmia, all’uomo, alla carta patinata. Più spesso, alla carta straccia.

T.N.T.

Notizie brevi sul neofascionismo.
Il 13 luglio, con un articolo sull'Italia per il Financial Times, Adrian Michaels si interroga sull'uso "incongruo" della donna nella pubblicità e in tv: "Since moving to Milan from New York three years ago, I have been wondering why no one seems to care about the incongruous use of women in advertising and on television, and what that says about Italian society...". La definizione di quest'Italia è condivisibile: un paese "arcaico". Voce dotta, aggettivo elegante, che secondo noi sottintende un giudizio più esplicito sull'habitat dell'italiano medio: un paese cafone.
http://www.ft.com/cms/s/7d479772-2f56-11dc-b9b7-0000779fd2ac.html