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Brest (rendez-vous)


Il 3 novembre 1957 avviene il primo volo spaziale di un essere
vivente: l’Urss manda in orbita lo Sputnik-2, con la cagnetta Laika, un piccolo e malinconico fox-terrier.
Laika viene chiusa in una capsula conica di 1,20 metri di altezza, in una piccola cabina pressurizzata, con aria condizionata e ossigeno, acqua e cibo per una settimana.
La cagnetta serve per sperimentare tutte le incognite del volo spaziale: le accelerazioni del lancio, la vita in assenza di peso, il bombardamento di raggi cosmici e radiazioni ultraviolette. Dalle sue reazioni alla vita fuori dall’atmosfera terrestre, trasmesse dallo Sputnik alla Terra, gli scienziati sovietici arrivano alla conclusione che anche l’uomo sarà in grado di viaggiare nello spazio e di rientrare felicemente sulla Terra.
È previsto, invece, che il viaggio di Laika sia senza ritorno, perché le tecnologie dell’epoca non rendono ancora possibile il rientro dallo spazio. Dopo sette giorni di volo orbitale, le scorte di ossigeno si esauriscono. Lo Sputnik-2, con il corpo della cagnetta, verrà lasciato ruotare intorno alla Terra per altri quattro mesi, finché, il 14 aprile 1958, piomberà nell’atmosfera, disintegrandosi.

(Data di pubblicazione sul blog: 15/09/2007)

Alle porte dell’autunno, Roberto e Silvana soggiornarono a Brest, per una decina di giorni.
Non c’era molto da vedere. Brest era una città grigia, e a Silvana, se avesse conosciuto il francese, avrebbe sicuramente richiamato quella strana assonanza tra mer e meurtre: Brest sembrava una città riservata a persone con piena maturità di giudizio.
Abitavano in un albergo non lontano da Rue St. Marc. Silvana ripeteva:
«Perché Brest?»
Perché Brest. In effetti, sarebbe stato, non diciamo geniale, ma sicuramente meno stupido fare una breve vacanza da qualsiasi altra parte. Ma la principale caratteristica di un’idea geniale è che viene soltanto ai geni.
Roberto non spiegava il suo interesse per Brest: una grande rada, la penisola di Plougastel, il Port de commerce, il Port de guerre. Del passato, soltanto un brutto simbolo repertato: il castello con vista sulla rada, pochi euro per visitarlo.
La volta del cielo, che mutava spesso colore, era più alta di qualsiasi altro cielo.
Nel loro piccolo albergo, una vecchia palazzina che, in origine, era destinata sicuramente ad altro uso, avevano chiesto una “camera con vista”. Un gabinetto serviva i clienti di due piani. Il materasso era scavato. La finestra della camera non mostrava alcun paesaggio: soltanto un altro palazzo scrostato, e poi un anonimo palazzo, e poi un altro palazzo scrostato. «Camera con vista? Secondo me, quest’albergo era un pensionato per ciechi,» si lamentò Silvana.
Per depositare la chiave della camera, Roberto doveva entrare nell’appartamento privato della proprietaria dell’albergo, dove veniva costretto a parlare del più e del meno. La figlia trentenne della proprietaria rientrava in albergo sempre alla stessa ora: tra l’una e le due del mattino.
Una sera, Roberto lasciò Silvana in albergo. Conosceva una donna che lavorava alla Compagnie des Transports de Brest, in rue du Moulin à Poudre: si arrivava, dal porto, costeggiando il Penfeld, poi il Boulevard Jean Moulin, l’Hôpital Maritime, rue Portzmorguer, e infine si passava sotto il ponte Schumann. Roberto fece una lunga passeggiata.
Thérèse abitava in rue de la Digue, vicino alla Cité Universitaire. Aveva i capelli biondi cortissimi; non emanava alcun odore particolare; era serissima.
Parlarono poco. Fecero l’amore subito. Thérèse affondò il viso nel cuscino; poi si rannicchiò in un angolo del letto, incollata alla parete. Aveva gli occhi europidi, ma gonfi, con le ciglia corte. Lo guardò. Aveva una voce aspra. Disse a Roberto che aspettava della gente.
Silvana piombò in una crisi: voleva scappare da Brest, conquistare la via per Morlaix o per Landernau o per qualsiasi altro posto. Roberto la portò a una festa organizzata, fuori città, dal partito socialista. Silvana aveva bisogno di svago.
La festa si svolgeva nei grandi capannoni di una fiera. Curiosando tra restaurant, jeux, tirs, loterie, expositions, Silvana si rese conto di non aver mai visto tanti ubriachi quanto a Brest.
Quella domenica si esibiva la corale Mouez Ar Mor; c’era del teatro bretone: la pièce si intitolava Strollad c’hoariva Plougin; facevano su e giù i balletti Dihun de Redon; alle 17,30, un intervento politico con dibattito; alle 19,00, un “grande spettacolo” con Bea Velakoski. La festa si consumava, con calma, al Parc des Loisirs.
Roberto e Silvana acquistarono due biglietti per il concerto nel bar-tabacs Le Mamy Blue, dove Roberto comprò anche delle sigarette italiane. Mentre attraversavano la strada, da un’auto urlarono: «Diwallit ‘ta!» Roberto disse a Silvana: «Credo che, in bretone, diwallit ‘ta significhi attenzione!»
Bea era una poetessa rock di origine moldava. Roberto la trovava “splendida”, appassionata. Silvana non sopportava il rumore.
«Tu non capisci il cuore,» le diceva Roberto.
«Oh, beh... È facile leggere nel cuore di chiunque. Purché chiunque fornisca il proprio elettrocardiogramma.»
Girarono per la fiera; parlarono con tre ecologisti. Silvana comprò un adesivo contro l’energia nucleare. Un militante socialista domandò a Roberto:
«Tu sei socialista?»
«Ogni tanto,» rispose Roberto.
«È lo stesso,» disse il socialista francese.
Il socialista offrì del vino. Domandò:
«Bianco o rosso?»
«È lo stesso,» risposero Roberto e Silvana. Ma, in realtà, avrebbero preferito del sidro. Roberto disse a Silvana: «Il sidro è buono, in bretone, si dice ar chistr ‘zo mat. Se qualcuno ti chiede “vuoi assaggiare?”, puoi rispondere ur blank, un sorso...»

Nella loro strada, davanti all’albergo, soprattutto il lunedì mattina, il marciapiede era costellato di grandi macchie di vomito.
Roberto e Silvana facevano colazione in una crêperie davanti all’albergo. Una ragazza maneggiava delle crêpes finissime e preparava, nella cucina all’interno dell’abitazione privata, del café au lait: con quelle colazioni semplici cercavano di iniziare bene la giornata.
In rue Jean Jaurès notarono molte ragazze che indossavano dei vestiti viola, e Roberto pensò subito a qualche forma di protesta.
«Protesta contro chi?» domandò Silvana.
Roberto non sapeva: forse... contro la costruzione di una centrale nucleare a Plougasnou o a Plougastel, a Plougonven o a Ploumanach, forse a Plouescat, o a Plouguerneau. Perché tanti plou?
«Credo che plou significhi parrocchia,» disse, pensieroso, Roberto.
Scoprirono che il viola era un colore alla moda: in Bretagna come in Provenza, a Parigi come a Marsiglia, in Francia come in Italia, in Italia come in Gran Bretagna, in Gran Bretagna come in Germania. Silvana si sentì disamorata: «Tu devi pseudologizzare tutto quanto. Anche uno schifo di colore.»
Una notte, a Brest, dalle parti del Port de commerce, passeggiarono nel buio del Jardin Kennedy. Un ubriaco fermò Roberto per chiedergli delle sigarette. Una donna diede una busta bianca a un uomo.
Roberto e Silvana entrarono in una delle minuscole trattorie della zona del porto. Nella vecchia trattoria c’erano due tavoli di legno coperti con della tela cerata. Il locale era gestito da due giovani che possedevano uno splendido cane lupo.
Il cuoco cubano confabulò con i proprietari, e preparò subito un enorme vassoio di homards à la crème. Poi il capo tribù si mise alle pentole, grandi come bonghi, che suonava e percuoteva meglio di Mongo Santamaria e di Armandino Peraza. El rey de los timbales.
I prezzi erano molto convenienti, ma non c’era una grande scelta. Uno dei proprietari spiegò che il coquillage andava prenotato e ordinato di mattina, con almeno dieci ore di anticipo sulla cena: in questo caso, avrebbero avuto a disposizione palourdes, coquilles St-Jacques, langoustes, huîtres plates. Certo, le ostriche non erano delle migliori, però Silvana restò a bocca aperta per tanta meraviglia.
Una lampadina centrale tingeva i visi di giallo brumoso.
Un marinaio grassoccio e calvo, col viso rincotto, si appoggiava al banco del bar; ubriaco, raccontava la sua tristezza a uno dei giovani proprietari. Il giovane consolò il marinaio triste e gli regalò una bistecca e delle patate giganti avvolte nella carta d’alluminio, da portare via. Roberto e Silvana mangiarono gamberi e ostriche, bevendo del muscadet. Il vino era da buttare.
Entrò un altro marinaio bretone, un colosso con la barba incolta, spintonando violentemente la porta d’ingresso. Entrò come una tromba d’aria, prima sorbendo, poi facendo cadere l’ubriaco triste. Il colosso soffiava intorno dei monsoni di rinite acuta. Era molto eccitato: disse, chiaramente, che quella sera voleva picchiare e sfasciare tutto.
Silvana guardò Roberto con aria interrogativa: nel locale, l’atmosfera si era fatta gelida come dentro una cattedrale gotica. Il cane lupo aveva gli occhi di Jean Gabin e annusava la tempesta. Roberto e Silvana continuarono a mangiare. Dopo una lunga pausa di silenzio, Roberto le sussurrò:
«Marinai, in bretone, si dice martolod
L’altro giovane proprietario raggiunse l’amico dietro il banco del bar. Il cuoco cubano si piazzò all’entrata della cucina: el rey de los timbales sentiva avvicinarsi la festa. Il cane lupo si sforzava di capire la strategia. Il colosso diede dei calci contro il bancone.
Roberto cercò, con delle rapide occhiate, un posto sicuro; ma, in quel minuscolo locale, non c’era un posto sicuro. L’ubriaco triste si lagnava. Il colosso lo scaraventò a terra, con una semplice manata.
Uno dei due giovani proprietari negò da bere al colosso, con calma e determinazione. L’altro gli disse:
«Abbiamo ospiti: per piacere, comportati bene.»
Gli unici “ospiti” erano Roberto e Silvana. Il colosso fissò a lungo Silvana, e infine piombò in un mistico, educato silenzio, e per mezz’ora buona mostrò il viso di un bambino colto in fallo, corrugato dal labbruccio inferiore sino alle folte sopracciglia. Era soltanto una tregua. Roberto disse a Silvana: «Per piacere, in bretone, si dice mar plij
Roberto e Silvana terminarono i gamberi e le ostriche; lasciarono una buona mancia; salutarono e scivolarono via dal locale.
Roberto le disse: «Ma non hai avuto paura, quando ti fissava?»
«No,» lo tranquillizzò Silvana. «Non ho paura di chi mi guarda fisso negli occhi: magari è soltanto un po’ miope.»
Nessuna paura: Silvana era felice, come dopo aver visto un film di Vincente Minnelli; Roberto era turbato, come dopo aver visto un film di Carl Theodor Dreyer.
La mattina seguente, Roberto comprò il quotidiano Le Télégramme, direttore Jean Pierre Coudurier. Sfogliò il giornale: era morto M. Pierre Le Bourhis, presidente della Caisse régionale de Crédit Agricole: era un uomo di grande bontà. Il loro amico colosso non aveva combinato troppi guai, nella piccola trattoria del porto. Il roast-beef di prima scelta era a 16,72 euro al chilo; il pot-au-feu, a 7,74 euro. Il tempo era previsto variabile.
Roberto e Silvana comprarono qualcosa da mangiare in un grande centro commerciale nella route de Gouesnou. La commessa li servì, dicendo ha setu!: qualcosa come et voilà!
Silvana, non solo non capiva il bretone, ma neanche il francese: questo le rendeva Brest ancora più incompatibile.
Roberto telefonò a Thérèse, alla Compagnie des Transports. Thérèse rispose e, quando riconobbe la voce, disse qualcosa in bretone. Roberto credette di capire alcune parole: pez a zo asur... yaouank... malloz.
Thérèse riagganciò.
Silvana telefonò alla mamma, che era stata alcune volte in Bretagna, e che le raccomandò almeno una visita, più giù, verso Quiberon, magari a Belle-Île. Dove Sarah Bernhardt prendeva il caffè, all’Hôtel du Phare; dove Claude Monet dipingeva; dove Gustave Flaubert poltriva; dove Jacques Prévert cazzeggiava con i pescatori; dove i colori sono meravigliosi, tra palme e ibischi, mimose, fichi e orchidee, erica, ginestre. E dove c’è sempre un alberghetto con lenzuola di lino e copriletto ricamato...
Silvana preparò la sua valigia. Roberto cercò di fermarla in tutti i modi, ma Silvana gli mollò un pugno sul muso.
Roberto disse a Silvana: «Ti amo, in bretone, si dice me da gar
«Ammesso che sia vero, questo non cambia niente,» replicò Silvana.
Da allora, di Silvana si son perse le tracce.
Sono già passati alcuni anni, ma Roberto, la mamma e il papà di Silvana, gli amici e i parenti non hanno smesso di sperare, perciò affidano all’autore di questo racconto un messaggio, che l’autore volentieri accoglie e trasmette:

SILVANA,
TI VOGLIAMO BENE
E ASPETTIAMO
ARDENTEMENTE
IL TUO RITORNO.

Roberto rassicura tutti ed è molto fiducioso. Dice che il tempo aggiusta molte cose, e che Silvana è come in volo, ma rientrerà a casa presto, nel suo nido, come un piccolo uccello.
Piccolo uccello, in bretone, si dice labousig bihan.
G. G. (disegni di Gaspé)