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Mangereste una mela morsicata da altri?

Assistenza Apple, assicurazione AppleCare e il grande equivoco dei ricambi nuovi e/o usati. Breve storia di un iBook che non sapeva fare l’iBook.(Agosto 2007) Premessa. Delle mele, ho sempre pensato un gran bene: una forma perfetta, design morbido (Armani lo chiamerebbe “destrutturato”), un profumo meraviglioso. Certo, la mela ha molto fascino: per la sua fragranza e i suoi colori, per la forma di questo frutto della tentazione e del peccato, come ci dicevano al catechismo, quando il prete evitava di dirci che certi peccati, però, sono veramente deliziosi, con l’aggravante, poi, che sono persino originali.
La mela è buona, la mela è bella. Anzi, di più: la mela dei fratelli Grimm era "una bellissima mela". E non solo: venne offerta in regalo. Bella e conveniente. Tanto che l'ingenua Biancaneve si sentì in dovere di darle un morso. Con le note conseguenze.
Le mele piacevano anche a mia madre. La mia mamma cucinava molto bene, ma non mangiava molto. Quand’era più avanti con gli anni, la sera si limitava a mangiare una mela. Si sedeva in cucina, con la sua bella mela nel piatto. La pelava e poi la mangiava con calma. Quella era la sua cena.
Aveva sempre goduto di ottima salute. Per fortuna dei suoi alunni (o per sfortuna, dipende dai punti di vista), credo che non abbia mai fatto neanche un giorno di malattia. Una donna tenace, attaccata al lavoro, seria. Lei e la sua piccola mela. Sinché le è successo tutto di colpo. Diagnosi: morbo di Alzheimer, una malattia tremenda, devastante, che l’ha accompagnata sino alla morte. Povera donna.
Insomma, sarà anche vero che una mela al giorno toglie il medico di torno. Ma è anche vero che, mela dopo mela, alla fine il fruttivendolo arriva e ti presenta il conto.

Il primo morso. Il mio primo computer era marchiato Apple. E così il secondo. Il terzo. E così via. Che cosa vuol dire? Vuol dire che sono un Mac user da sempre. Fanatico? No, per carità. Diciamo fedele. Per amore? Dato che non ci si innamora di un circuito stampato e di una manciata di condensatori, direi per necessità. Sono sensibile alle parole “friendly” e “human”, che Apple ha opportunamente evidenziato all'inizio del suo successo nel suo vocabolario tecnologico. E poi, quando, raramente, mi capita di usare Windows, mi viene un attacco di orticaria.
Ho acquistato il primo Apple molto tempo fa, perché già lo usavano due colleghi, e mi sembrava funzionale, semplice, ergonomico. Mi piaceva la melina arcobaleno e il computerino che faceva hello. E poi nell’ambiente della pubblicità era la marca più diffusa. Del resto, programmi come Photoshop, Illustrator, Freehand, ma anche Excel e Word, se non ricordo male, sono nati in simbiosi con la Mela.
Comprare un computer Apple, allora, era un piccolo atto di incoscienza. Sembrava di iscriversi alla Carboneria. Per trovare quel particolare modello, ricordo di essere finito in uno scantinato, poi in un negozio improbabile senza insegna e vetrine dove ho effettuato l’acquisto. Con la prima delusione: scoprii solo più tardi che qualcuno aveva sottratto dalla confezione i dischetti di ripristino del sistema. Fu il mio battesimo di consumatore tradito. O poco avveduto. Dipende da come la si prende.
I prodotti erano cari. Gli accessori rari e carissimi. Se rivedo le fatture dell’epoca mi vengono i brividi. Oggi mi chiedo: che cosa mi ha spinto al masochismo? La percezione, a volte illusoria, più spesso concretizzata, di avere a che fare con un’azienda attenta alle esigenze dell’utente, con prodotti esteticamente belli e soprattutto disegnati con intelligenza rigorosa, dove non c’era ridondanza, ma una bellezza essenziale, funzionale: ciò che è bello, è bello perché serve a qualcosa. E la percezione di un sistema e di un hardware abbastanza affidabili. Possiedo un portatile Apple aquistato 14 anni fa: non lo uso più, ovviamente, perché non dialoga più col mondo moderno, ma funziona ancora senza intoppi, e quasi mi spaventa, come se fosse Christine la macchina infernale. Percezione allargata al rapporto diretto con l’azienda. Otto anni fa comprai un Mac di fascia alta. Costava una cifra mostruosa, in confronto ai prodotti della concorrenza. Quando lo portai a casa, mi resi conto che aveva una piccola abrasione sul davanti. Il negoziante si rifiutò di sostituirlo. Protestai con Apple. E si scomodò addirittura il Country manager, che impose l’immediata sostituzione. E poi una seconda sostituzione, per dei problemi alla scheda grafica, con ampliamento della garanzia.
A queste attenzioni particolari, alla fine, ci si affeziona. Tanto da non rendersi conto che gli anni passano e le cose cambiano radicalmente. Oggi Apple è rinata grazie al successo dei suoi gadgets, come l’iPod. E quando dici “gadget”, suona sempre il campanello d’allarme. Forse perché lo associ all’usa e getta, al lusso, al consumismo sfrenato. Ma è vero che i tempi sono molto cambiati. Facciamo un esempio. Se si guasta la scheda logica di un portatile fuori garanzia, l’assistenza non ci prova nemmeno a prendere lente e micro saldatore, non l’aggiusta, ma la sostituisce, e chiede 700 euro. Che sarebbe il 60% di quanto ti è costato il computer. A quel punto, conviene buttarlo via e ricomprarne un altro, nuovo. E se riparare un computer fuori garanzia non conviene a nessuno, che fanno le aziende? Alimentano il consumismo. Abbassando i prezzi ma anche la qualità. Non per niente, i casi di “mortalità infantile” - tra il primo e il secondo anno d’uso - dei computer sono aumentati sensibilmente.
Apple non è estranea a questa nuova tendenza. Se lo fosse, soccomberebbe. Ha tolto “computer” dalla sua ragione sociale, è diventata Apple tout court, e la cosa ha messo in allarme gli utenti di lungo corso, soprattutto i professionisti, a cui l’azienda di Cupertino oggi guarda forse con meno interesse. In tempi di multimedialità, anche Apple si è adattata. In tempi di “ottimizzazione”, soprattutto dei costi e della filiera, Apple si è adattata molto più in fretta di altri. Ed è cambiata, nel senso che guarda, direi necessariamente, ai nuovi soggetti. Gli specialisti, i professionisti, i grafici, i pubblicitari, i ricercatori, quelli che nel secolo scorso rappresentavano lo "zoccolo duro" degli utenti Apple, ormai ne possono fare benissimo a meno. In tempi di globalizzazione, tutto è omologato. Gli utenti italiani, in particolare, sanno di essere in coda alle attenzioni dell’Impero. Se hai un problema, devi rivolgerti, non più a Cologno Monzese, ma a Cork in Irlanda. Telefoni a tue spese, e pare che paghino soltanto gli italiani, e ti risponde un call center. E così l’utente scoprirà di essere non più un privilegiato, ma un utente spersonalizzato. E fine del sogno.

Un altro morso. Il mio sogno si è interrotto due anni fa. Diciamo che il 2005 è diventato la linea d’ombra tra annus mirabilis e annus horribilis nel mio lungo rapporto con Apple. Tre acquisti, tre prodotti difettosi. Un record. Un iMac G5 destinato a mia moglie, affetto dalla nota sindrome dei condensatori da pochi centesimi che scoppiavano: scheda logica sostituita dopo un mese dall’acquisto. L’iPod regalato a mio figlio come premio per dei buoni risultati a scuola: guasto dopo pochi mesi, non aggiustabile, sostituito. E infine l’iBook, un portatile: display difettoso, in riparazione dopo un mese di utilizzo.
Ora, si dirà, dopo tre knock out di questa portata, qualsiasi arbitro ti manderebbe a casetta. Ho abbandonato Apple? Non proprio. Ho cercato di interrompere la serie negativa, approfittando di un’offerta vantaggiosa e acquistando un altro computer, un Mac Mini con il nuovo processore Intel. E com’è andata? Abbastanza bene. Dopo un brivido iniziale (risolto con un semplice reset della PRAM), mi sforzo di credere che vada tutto bene: questo Blog è scritto con il grazioso Mac Mini. Ma, in realtà, la serie negativa non si è interrotta: il masterizzatore interno è difettoso, non mi fa il Master e masterizza soltanto a due velocità, 8x e 24x. Dopo aver fatto una ricerca in Rete, ho scoperto che il problema è dovuto a "una partita difettosa". Direte: perché non lo hai portato dall'assistenza? Perché, e lo dico sulla base delle esperienze che racconterò di seguito, potrebbe fare più danni. Risolverò acquistando un masterizzatore esterno, magari assemblato ed economico, diciamo un Nec o meglio un Liteon con un case esterno cinese, sicuramente più affidabile.
Però, però. Però mi resta un cruccio: l’iBook. L’iBook che non ne volle sapere di fare l’iBook...
Tutto è cominciato un giorno prima del mio compleanno. Al mio vecchio Apple (sei anni spesi bene) era partita la scheda video, non conveniva ripararlo perché l’assistenza Apple mi chiedeva una cifra mostruosa (lo riparai più tardi grazie a un ebayer texano che mi vendette una scheda analogica per pochi dollari e al fai da te: totale 50 euro contro i "300 forse 400" preventivati dall'ineffabile assistenza Apple), avevo necessità di un altro computer, preferibilmente un portatile. E così approfitto di uno sconto sostanzioso, e compro un iBook da Mondadori. Dopo qualche settimana, compaiono delle macchie nel display. Conosco quel difetto, perché si manifestava su altri portatili Apple, come il Powerbook. Perciò porto l’iBook dall’assistenza, a fine ottobre. Attendo una settimana e chiedo notizie: mi dicono di portare pazienza. Attendo. Attendo. Attendo. E arriviamo a dicembre. Dopo ben 38 giorni di attesa, ho il mio iBook con il nuovo display. Arrivo a casa, accendo. Faccio delle prove con vari sfondi. L’illuminazione è buona, sono scomparse le macchie, ma, nella parte sottostante, compaiono degli aloni vistosi. E io perdo la pazienza. Scrivo una serie di lettere raccomandate: al rivenditore, alla stessa Apple, e per conoscenza all’associazione consumatori a cui sono iscritto. Mi telefona Apple dall’Irlanda. Gentilmente, mi dice che ci tiene alla piena soddisfazione degli utenti e mi assicura una pronta riparazione. E così è. Dopo qualche giorno, mi telefona l’assistenza sollecitata dall'Irlanda. Tempo della sostituzione del display: un giorno. Un miracolo. Che dura, appunto, un giorno.
Ritorno a casa. Accendo, provo, valuto. Non compaiono più macchie e aloni, ma l’illuminazione è molto bassa, la definizione dei caratteri mediocre. Provo l’uniformità di retroilluminazione a colore neutro pieno: con sfondo grigio si nota subito il disastro; con sfondo bianco noto un fastidioso ingiallimento diffuso, ampie zone più scure, insomma c’è disomogeneità. Un chiaro (per un occhio esperto) difetto di retroilluminazione. Telefono al tecnico, gli espongo il problema, gli chiedo la marca della matrice TFT: LG-Philips, ChiMei, AuOptronics, Samsung? Mi dice che lui non guarda le marche. Gli dico: smonta e sostituisce a occhi chiusi? Mi dice che il ricambio, comunque, è adeguato. Secondo lui. E siccome lui è l’unico arbitro della situazione, c’è poco da fare. Mi rassegno.
Non mi rassegno, invece, ai tentativi di risolvere il problema. Provo diverse calibrazioni, ma non c’è niente da migliorare. Così com’è, l’iBook non può svolgere le funzioni di portatile: la luminosità è scarsa, se lavoro in un ambiente che non sia buio, vedo poco, e la vista soffre. Decido perciò di trasformarlo in fisso. Lo cedo a mio figlio e gli allestisco una work station casalinga, buona per i lavori della scuola: lo monto su un supporto iCurve per aerarlo meglio, aggiungo un hard disk esterno, tastiera e mouse di Macally, e compro un monitor da 19”. Alla fine, questo portatilino mi costa quasi quanto un computer di fascia pro. E non basta. Faccio una sciocchezza. So di avere tra le mani un computer sfigato. Tra l’altro, un portatile è molto più fragile, miniaturizzato, soggetto a movimenti anche bruschi perciò corre più pericoli. E così decido di acquistare un’AppleCare. Che cos’è? È una sorta di assicurazione che porta a tre anni la garanzia, e che Apple vende a un prezzo folle: fatte le proporzioni, è come se facessero pagare l’assicurazione di un’automobile 10.000 euro. Non so se rendo l’idea.
Bene. Dopo questa reazione, mi calmo. Scrivo una lettera a Apple in Irlanda, comunico la mia insoddisfazione, e finisce lì.
Sinché, un giorno, conosco un francese che si occupa di reti, ma che ha lavorato a stretto contatto con tecnici Apple. Chiacchieriamo e ne approfitto per fargli vedere l’iBook. Lo esamina attentamente, ed emette la sentenza: il ricambio è scadente, c’è un problema di retroilluminazione. Gli racconto la vicenda e mi guarda storto, come dire: ah, les italiens. Mi dice di telefonare al più presto a Apple e di chiedere la sostituzione. Sì, come se fosse facile.
Nello stesso tempo, un amico mac user che è a conoscenza del problema mi suggerisce un software che rileva tutti i dati, persino la data di nascita, della matrice TFT. Si chiama SwitchResXControl e lo provo subito. Scoprendo che Apple ha sostituito il precedente display con uno vecchio di due anni. Perbacco: allora è questa la causa dell’ingiallimento, la vecchiaia?
Dopo un po’ di rimuginare, dopo qualche giorno di mumble mumble, preparo delle lettere raccomandate che spedisco al rivenditore, a Apple, all’associazione consumatori. E passano i giorni, le settimane. Il primo a rispondere è l’associazione, mi dice che mi metterà in contatto con un legale. Il rivenditore ignora la lettera. Apple mi contatta dopo un mese. Per dirmi che per loro il caso è chiuso. Se il loro tecnico dice che il ricambio è adeguato, gli credono, perché la loro assistenza è “altamente qualificata”. Che vuol dire incontestabile, infallibile. Certo, dico io, così “altamente qualificata” che impiega 38 giorni per sostituire un pannello LCD, quando un non portatore di handicap ne impiegherebbe 38, non di giorni, ma di minuti. E che dire dell’AppleCare, la famosa assicurazione? Che lì, se leggi bene una clausolina in fondo, ma molto in fondo, scopri che Apple ha la facoltà di adottare ricambi nuovi ma anche usati "ricondizionati". Decide lei. E poi la storia dei due anni è tutta da vedere: magari il display è nuovo, magari è vecchio, magari stava in magazzino da due anni. Chi può dirlo? Già, chi può dirlo. Come se, in questi tempi in cui la parola d’ordine è svuotare i magazzini, Apple si prendesse la briga di riempirli. Ma mi faccia il piacere. Quello che non digerisco, è la storia dei ricambi usati, anche se "ricondizionati": è vero o non è vero che io ho acquistato un computer nuovo? Con moneta corrente priva , se così si può dire, di difetti?
Mi aspettavo qualcosa di diverso? Forse sì, forse no. Però mi colpisce il fatto che non mi dicano almeno: beh, in fondo hai speso dei soldi per l’assicurazione, prova a portarlo all’assistenza, magari trovi un altro tecnico più disponibile, e senti che ti dicono. Niente. Colpisce l’arroganza, la supponenza. L’incontestabilità. Questo fatto di sentirsi, dopo il successo dell’iPod e dei gadgets modaioli, un po’ troppo vicini a Dio, più che alle difficoltà dell’utente. Sono sentimenti che registro: è una novità di cui i vecchi utenti dovranno per forza tener conto. Di cui io comincio a tener conto.

L’ultimo morso e morale finale. Insomma, l’AppleCare non è un salvavita: vi copre se il guasto non è dato dall’usura e se è evidente, tipo una scheda logica che schiatta, un monitor nero. Ma è una cosa comica: come dire che un ospedale ti cura se muori, non se ti viene una pericardite o un attacco di tifo. Ed è molto cara. Fate voi le proporzioni: un MacBook modello, diciamo, base, costa 1049 euro; l'AppleCare dedicata costa 319 euro. Oggi negozi come Mediaworld e Fnac offrono un’estensione di garanzia con un’assicurazione leggera, cioè a basso costo, poche decine di euro contro la cifra esorbitante richiesta da Apple. Altri, come Essedi, riconoscono due anni di garanzia, gratis. Mentre il negozio online Apple Store pare che non conosca neanche l'esistenza della legge europea che tutela i consumatori per due anni dalla data di acquisto.
Suggerimento finale. Quando acquistate un computer, provatelo subito, non comprate a scatola chiusa: un rivenditore serio non dovrebbe opporsi alla prova sul campo. E quando ritirate un computer presumibilmente "aggiustato" dall’assistenza, verificate il risultato insieme al tecnico. Se qualcosa non vi quadra, lasciatelo dov’è. E ricordatevi che, alla fine, c’è sempre un giudice, a cui si può ricorrere preferibilmente con l’aiuto di un’associazione consumatori. Per far capire alle aziende come Apple che nessuno è incontestabile né infallibile. E per far capire che un consumatore maturo, evoluto, può sciogliere i legami, anzi non dovrebbe mai legarsi a una marca. Perché i tempi cambiano. E perché le aziende, come le persone, invecchiano e perdono la memoria. Di quando si era così “friendly”, così “human”, così ingenui da pensarlo e, quel che è peggio, da credere che fosse tutto vero.
Per quanto mi riguarda, diciamo che alla fine cambierò dieta. Dalla mela, alla macedonia: mai più privilegiare un marchio, ma acquistare con giudizio soltanto ciò che è strettamente necessario e che è conveniente, senza pregiudizi. Tanto, ormai i computer hanno gli stessi componenti e, per me, hanno tutti la stessa storia: dopo che sono fatti nelle disumane fabbriche cinesi, non hanno più un padrone diverso dall'altro. O meglio, la voce del padrone è quella anonima, distante, di un call center ai confini dell'Europa.

EL PURTAVA I SCARP DE TENNIS.
Me lo ripropongo ogni volta, di cambiare dieta, che non è detto che si possa vivere di sole mele. Ma non so se riuscirò a dire veramente hello to Apple. Difficile, sinché salirà sul palco del San Francisco’s Moscone Center quello stoned hippy called Steve Jobs col dolcevita nero, i jeans consumati e i scarp del tennis, ma che non parla de per lu come il personaggio di Jannacci. Tutt’altro. Perché è un americano di padre siriano che sa cos’è il fascino della parola e il potere della seduzione. Come la principessa Shahrazàd, offre racconti siriani e persiani straordinari per mille e una notte. E che quando dice one more thing! come se dicesse adesso ti racconto alf laila wa laila con contorno di suoni arabi e presenta l’ultima novità tecnologica di casa Apple come se fosse la meraviglia del mondo che non c’era e adesso c’è, e come mai sinora ne avevamo fatto a mano, tutto il mondo gli crede almeno per una notte.
L’americano-siriano come Shahrazàd? Questa è una chiave per capire quel genio del marketing che è il Ceo di Apple e primo azionista della Disney. Non che io abbia una simpatia assoluta per chi oggi vuol fare concorrenza più a Nokia che a Microsoft (ma i tempi cambiano e il business è business) e per la principessa incantatrice, ma Jobs (1955) è un eccellente attore della mia generazione, nata negli anni del rock and roll, quando usciva Maybellene di Chuck Berry (1955) e Shake, Rattle and Roll di Jesse Stone (1954) veniva lanciata dal mio amatissimo Big Joe Turner. Non dargli almeno un po' di retta, sarebbe come tradire, non dico se stessi e la propria storia, ma almeno uno degli angoli più agitati della propria discoteca.

Aggiornamento. Nel mese di novembre, la rivista Fortune ha pubblicato la propria classifica dei 25 businessmen più “potenti” (o influenti, che dir si voglia, grazie alla capacità di muovere nuove tendenze e di portare innovazioni di rilievo nell’ambito del proprio settore) del mondo. Al primo posto, Steve Jobs, ceo di Apple.
Di Jobs, descritto come importante esempio di una nuova generazione di dirigenti, viene rimarcata l’abilità di trasformare le intelligenze dei propri collaboratori in successo personale e dell’azienda, la capacità di cambiare le dinamiche del mercato dell'entertainment con iTunes e l'iPod, insieme alla capacità di amministrare un “cool power”: un potere costruito attorno a un'idea vincente, originale, che riesce a sfondare in un mercato in cui le barriere d'entrata sono sempre più basse e sempre più accessibili.
Ma uno dei veri punti di forza della personalità di Jobs è il suo eclettismo, dote evidentemente sempre più rara nei businessmen del Terzo millennio, testimoniata dai traguardi più importanti della sua storia personale: dalla fondazione di Apple, al lancio del personal computer, all’idea di un’interfaccia grafica di cui oggi tutti conosciamo i pregi. E, tra vari alti e bassi, l’avventura con Pixar poi confluita in Disney, il ritorno in Apple dopo il contrastato divorzio, la rinascita e il rilancio con nuove idee che hanno cambiato la storia e il mercato dell’entertainment.
La classifica di Fortune conduce a una morale finale. La generazione degli scapestrati creativi - quella generazione la cui formazione culturale è avvenuta a cavallo tra l'epoca dei "figli dei fiori" e il ‘68, che molti osservatori inaciditi dagli anni e dagli eventi giudicano oggi come una generazione di sconfitti - trova in Jobs una forma premiante di resurrezione, e una nuova regola: che il manager si giudica dalla testa, non dalle scarpe. Di conseguenza, attendetevi una rivoluzione tra i giovani conformisti di Confindustria: invece delle Prada, adesso porteranno tutti i scarp de tennis?

CARA APPLE, NON È BELLO MORIRE DA PICCOLI.

I vecchi Mac user sono cresciuti con la convinzione dell’esclusività e dell’usabilità domestica dei prodotti Apple. Per loro, la società di Cupertino pensava non solo dei computer con un sistema operativo intuitivo, affidabile e graficamente piacevole, ma anche un hardware bello e soprattutto funzionale. Così funzionale che, in qualche caso, per aprirlo bastava un cacciavite. In questa curva ideale di attenzioni, l’iMac G5 prodotto alla fine del 2004 rappresenta l’apice. Aperto con un gesto semplice, alla portata di tutti, vi si spalanca davanti un piccolo miracolo dell’ingegneria “friendly”, dove praticamente tutto è sostituibile dall’utente. Ma la fase discendente di questa curva oggi è rappresentatata da nuovi prodotti come il nuovissimo iMac: l’utente può giusto cambiare la ram, tutto il resto è enormemente complicato anche per il tecnico più esperto. Oggi, e il discorso riguarda tutte le aziende, tutto è più miniaturizzato, tutto è maledettamente complicato. E i vecchi proclami sull’usabilità, sulla tecnologia “umana”, vanno a farsi benedire.
Se nel passato Apple era la nicchia, oggi segue un posizionamento diverso: è orientata al mercato. Vendere iPod e iPhone - riconoscono i vecchi Mac users - rende molto di più che costruirsi un solido mercato in un determinato settore professionale che può garantire al più qualche migliaio di clienti. Sul rapporto di Apple con l'utente professionale, con il mondo scientifico, della ricerca, della scuola, ho seguito un'interessante discussione su Tevac, intitolata "Un silenzio assordante", e che segnalo qui:
http://www.tevac.com/article.php/20070805111837392
Oggi che Apple è uscita dalla sua storica nicchia, anche grazie all'enorme successo dell’iPod, tra i Mac user c’è un acceso dibattito che nei forum dedicati al mondo Apple occupa spazi sempre più vasti: sul cambiamento dovuto alla nuova architettura dopo l’adozione dei processori Intel, sulle prospettive, sulla qualità della componentistica. Tra l’altro, ci si chiede come Apple, ex società di nicchia, affronterà il nuovo corso che la rende più simile agli altri soprattutto sulla qualità di componentistica e assemblaggio. C’è chi fa confronti - sbagliati - col passato, quando i computer duravano molto di più, e il presente che ci dà computer meno affidabili in termini di durata. Ma c’è da dire che oggi i computer hanno funzioni non immaginabili a quei tempi, sono più complessi e di conseguenza più delicati e soggetti a guasti. E chi lamenta troppi guasti, intoppi o difetti ha torto e insieme ragione. Inanzitutto, Apple vende di più, perciò la gente si lamenta di più. Ma la cosa strana è che, in ogni caso, guasti o non guasti, pare che gli utenti Apple siano generalmente soddisfatti delle loro scelte, più degli utenti Dell, IBM e compagnia varia. E questo, se fosse vero e provato, sarebbe un dato significativo, di cui Apple deve tenere conto in futuro, anche per non buttare al vento questo patrimonio di fiducia costruito soprattutto grazie alla fedeltà del suo storico “zoccolo duro”: i vecchi Mac user, i propagatori del verbo, i discepoli del capo carismatico, quel genio del marketing che è Steve Jobs.
I prodotti tecnologici stanno subendo un generale scadimento di qualità? È un'opinione diffusa: lo scadimento sarebbe dato anche dalla rincorsa al risparmio per il drastico abbassamento dei prezzi al pubblico, e quindi dei costi di produzione, dei componenti, dell’assemblaggio, sino alla rete commerciale e al rapporto con il cliente. Certo, la famosa qualità. Di cui oggi si parla nei forum. Qui la società di Cupertino deve vedersela con i tempi che cambiano, e che rischiano di farla assomigliare agli altri competitors. Aumentando i numeri della produzione, crescono propozionalmente anche i difetti. È quello che leggo nel dibattito che si è aperto nei forum dei Mac user a cui accennavo. Dove trovo: “La "qualità" non dipende tanto dal nuovo processore, dalla nuova architettura, quanto piuttosto da altri fattori che ci fanno notare quanto Apple sia ancora "piccola" per certe cose (computer, software, ipod e ora iphone e appleTV). Manca di esperienza e la struttura deve adeguarsi (più fabbriche e sicuramente un controllo qualità più accurato)”. E ancora, come dice un utente nel forum di Macitynet: “Negli ultimi 36 mesi Apple ha registrato un fortissimo incremento delle vendite di Mac, soprattutto nel settore dei portatili, rimanendo però legata a una organizzazione produzione/distribuzione troppo rigida. Mi spiego: con il cambio di architettura Apple ha avuto accesso ad un mercato componenti/assemblatori molto più ricco nell'offerta, ma la filosofia strettamente verticale di Cupertino nello sviluppo del prodotto ( specifiche di costruzione molto stringenti legate ad un design ben definito; politche commerciali esclusive nei contratti con assemblatori e fornitori di componenti ) non si sposa con l'abbattimento dei prezzi e l'aumento della domanda. Ovvero Apple, ora che è uscita dalla sua storica nicchia di mercato, incontra tutti i problemi legati alla produzione in grandi numeri, con in più l’”aggravante" di aumentare ulteriormente la sua percentuale di vendite sul mercato. In più, come evidenziato in un altro thread sulla qualità della componentistica interna dei nuovi iMac, anche Apple deve fare i conti con la penuria di componenti di qualità ( condensatori al tantalio al posto di quelli elettrolitici, tanto per fare un esempio, oppure i nuovi display a led ) a fronte di cicli di rinnovo dei prodotti molto più veloci rispetto al passato. Vorrei ricordare che la concorrenza tra produttori esiste anche in questo campo, anzi è una competizione strategica, perché riuscire a ottenere un buon mix tra flessibilità produttiva, quantità e domanda del mercato, influisce parecchio sia sul costo finale che sulla qualità del prodotto venduto”.
Tre prodotti acquistati nel 2005, tre prodotti difettosi sin da piccoli. Questa è la mia recente esperienza: i famosi “36 mesi” di cui parlava l’utente coincidono, guarda un po', con il mio caso. È stato il mio battesimo con una nuova realtà, un caso sfortunato, o che altro? Ma quello che mi sorprende è il fatto che le tre matrici TFT - tra l’originale e quelle montate dall’assistenza - del mio iBook fossero di qualità mediocre: ma qui il discorso riguarda la qualità della componentistica, dei fornitori, sui cui Apple, come tutte le altre aziende, ha per forza di cose un controllo relativo. O c'è qualcosa che comincia a sfuggire al suo controllo qualità?
La rivista Macworld ha effettuato un’indagine sui propri utenti, un sondaggio che forse non fa statistica, perché limitato a 7000 macchine coperte in gran parte dall’AppleCare, ma comunque indicativo. Secondo l'analisi di Macworld, il 26% dei mac aveva un problema tale da richiedere l'intervento in assistenza, che ha una mediana di 9 giorni. Qui sotto pubblico il risultato (clicca sull'immagine per ingrandirla).










Nella tabella, proprio gli iBook, soprattutto i primi G3, avevano un certo tasso di mortalità. L’iBook oggi non viene più prodotto, sostituito, con l’avvento dei processori Intel nella linea hardware di Apple, dal MacBook. Accompagnato da un discreto successo, malgrado venisse venduto, nella versione base, con un allestimento a dir poco spartano: ram insufficiente, un piccolo hard disk da 30Gb, un apparecchio ottico che masterizzava CD ma non DVD. Il successo era dato, come spesso è capitato per i prodotti Apple, anche dalla bellezza funzionale dell’oggetto: non a caso, l’iBook, nella versione piccola da 12”, è uno dei prodotti Apple esposti al MoMa di New York, firmati da Jonathan Ive, compresi l’affascinante ma sfortunato iCube e il più conosciuto iPod, ai confini tra moderne opere d’arte e piccoli miracoli della tecnologia.
L’iBook, così ambito da giovani attenti all’usabilità e da professionisti con gusti più semplici di quelli che preferivano il più ricco Powerbook di alluminio, ha dato qualche grattacapo: nei primi G3 un discreto numero di unità aveva la scheda logica difettosa (le tristemente famose logiche riflussate), e così il successivo G4 in una mediana di 3 anni. Tanto che in Danimarca, sotto la pressione di un’agguerrita associazione di consumatori, Apple ha dovuto prendere in esame l'epidemiologia del difetto. Per capire il problema, si veda, oltre l’indagine di Macworld, quella di Macintouch, un’importante comunità online di mac users (clicca sull'immagine per ingrandirla):







Secondo Macworld, al 2007 il 40 % degli iBook ha avuto un problema, e, tra questi, il 46 % ha avuto un problema alla scheda logica. Secondo Macintouch, in un'indagine che arriva alla fine del 2005, il 12 % degli iBook G4 aveva dei problemi alla scheda logica. E il 55 % dei precedenti iBook, i G3, ha avuto problemi di scheda logica.
Ora, a parte questi dati, che, ripetiamo, sono indicativi, il sentimento di affidabilità e di soddisfazione nella casa di Cupertino resta alto. Probabilmente, anche grazie al riconosciuto ruolo di innovatore che, a torto o a ragione, Apple è riuscita a cucirsi addosso. E poi, resta da dire la cosa più importante: oggi la tecnologia crea macchine molto più complesse, perciò più soggette a guasti; ma ogni evento infausto è frutto di una “disposizione” e di una “esposizione”. I termini della questione li spiega un utente italiano più “tecnico”, Macbuk, che leggiamo spesso con piacere: “Gli ibook G3 e G4 erano gravati dallo stesso problema: una scheda madre molto grande a lenzuolo montata in un frame troppo poco rigido. Specie quando la macchina veniva presa da uno degli angoli, i componenti di quel punto venivano stressati. Il G3 aveva il chip Ati in quel punto saldato da sotto in BGA con il flussaggio a calore, quindi la morìa fu quasi generale. Il G4 aveva il chip a 20 piedini che però più che un difetto di saldatura ha mostrato delle vere e proprie crepe lungo i piedi. Queste cose però sono accadute in una percentuale ben più ristretta di macchine e per questo motivo Apple fa finta di non sentire le bestemmie della gente. Gli iBook G3 e molti iBook G4 avevano dei chip che si dissaldavano per il calore o l'alta "rigidità" flesso torsionale del telaio”.
Design eccellente all'esterno, ingegneria discutibile all'interno: dunque, un difetto di progettazione. Ma lo stesso utente esperto fa dei distinguo, ricordando le “colpe” dell’utilizzatore: un notebook è una macchina fragile. La gente crede di poterlo sostituire a un desktop, tenerlo acceso intere giornate su e2k, portarlo ovunque, sbatterlo, prenderlo per i lati, buttarlo sul prato, dormirci sopra e chissà che altro, senza capire che oggi un computer di quel tipo è uno strumento da trattare con estrema cura, preferibilmente da assicurare. È una macchina che riscalda molto, e le saldature, quando la macchina è vicina ai 100 gradi e specie se viene sottoposta a stress torsoflessionali, diventano deboli. E questo vale per tutte le piccole macchine portatili, non soltanto per quelle prodotte da Apple.
Il primo impegno per un utente finale disposto alla speranza che la sua piccola macchina diventi grande, cioè che lo accompagni il più a lungo possibile, è usare mille attenzioni. Attenzioni che devono essere controbilanciate, però, dal mantenimento della qualità superiore promessa dall’azienda. La promessa verrà mantenuta? Tra i più giovani che arrivano a Apple sull'onda dell'iPod, tra i cosiddetti switchers, cioè quelli entrati soltanto di recente nel mondo Apple, e che, generalmente, dato che vengono dall'ambiente windows vengono giudicati di bocca buona, il problema neanche si pone; tra i vecchi Mac users, i più esigenti e preparati, quelli "storici", quelli dello "zoccolo duro" che ha tramandato ai posteri il mito di Apple, e che dalla stessa azienda sono stati a suo tempo coccolati, persino "viziati", invece vige il dibattito, a tratti molto acceso e non del tutto tenero. Auguri, Apple.