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Pronto, c'è Gandhi al telefono

La comunicazione pubblicitaria di Telecom Italia rivista alla luce delle ultime vicende, dal passaggio di Colaninno a Tronchetti e infine a Telefonica, dai debiti ai malumori dei piccoli azionisti, allo scandalo del Grande Fratello Security.


(2007) Nel mese di aprile, a Rozzano, si svolge l’assise per la rielezione del cda di Telecom. Il comico Beppe Grillo interviene in difesa dei piccoli azionisti e trasforma l’assemblea in un avvenimento teatrale, accompagnato dalle risate e dagli applausi del “loggione” e dal mal di fegato del cda. Analizzando la situazione di Telecom, il comico sottolinea come "la privatizzazione di Telecom abbia di fatto spogliato l'azienda. Bastava fare delle analisi da ragioniere ed io, che lo sono ragioniere, le ho fatte. Presunti manager con le pezze al c...o hanno indebitato l'azienda". Le sue ultime parole sono state: "Dimettetevi. Fate un favore al Paese. Andatevene".
Telecom nell’occhio del ciclone. Dopo lo scandalo della security diventata una centrale di spionaggio che collezionava dossier, le voci di passaggio agli stranieri di una delle più importanti aziende italiane, e alla fine l’ingresso di Telefonica. Un tourbillon di fatti e notizie ad alzo zero. Eppure, la comunicazione dell’azienda non ne risente. Anzi, con il contributo di ingenti investimenti, il compito della comunicazione pubblicitaria è quello di creare sogni, di disegnare un’immagine non corrispondente alla realtà. Non a caso, la comunicazione Telecom si muove spesso e volentieri sul piano prettamente istituzionale. Scelta forse non del tutto felice. Perché, dopo qualche tempo, quella strategia sfortunata inciamperà, clamorosamente, in una serie di coincidenze piuttosto comiche e di malaugurati incidenti. Come? Andiamo per gradi. E, per cominciare, facciamo il punto sulle ultime vicende Telecom ricorrendo a una puntata di Report, l’ottimo programma di RaiTre, di cui riportiamo uno stralcio (chi ricorda quella puntata, può anche saltare la lettura).

Fonte: Report del 25 marzo 2007, inchiesta “Telecom: debiti e spie”, di Sigfrido Ranucci.
La Telecom è stata controllata dallo Stato fino al 1997, quando il governo Prodi decide di privatizzarla. Transitano Guido Rossi, Rossignolo e Bernabè. E poi nel ‘99 arriva qualcuno che fa un’offerta pubblica d’acquisto e si porta a casa, con una scalata in parte a debito, la più grande e strategica azienda del paese.
Nel febbraio del 1999 Colaninno, Gnutti e oltre 180 imprenditori, ai quali si unisce anche l’ Unipol, lanciano la scalata alla Telecom attraverso la Bell. A finanziare l’operazione sono una serie di potenti banche come l’americana Chase Manhattan che mette a disposizione 50 mila miliardi di lire. Ma l’operazione di Colaninno e Gnutti trasforma la più importante società italiana di telecomunicazioni in un sistema di scatole cinesi. A capo c’è l’Hopa che controlla la Bell, che controlla l’Olivetti che controlla la Tecnost che ha la maggioranza della Telecom. Il trucco di questa catena di Sant’Antonio sta nell’aver riposto nella Bell (che ha sede in Lussemburgo) una quantità di azioni Olivetti inferiore al 30% del suo capitale. E questo ha permesso poi a Tronchetti di comprare la Telecom evitando di lanciare un’offerta pubblica di acquisto.
C’è stata una sorta di trattativa privata tra la Pirelli e Benetton, cioè tra i compratori e i venditori che in quel caso erano appunto gli azionisti della Bell, tra cui Colaninno e Gnutti ma anche altri, che hanno potuto beneficiare di un prezzo molto elevato proprio perché quella partecipazione permetteva il controllo a valle non solo dell’Olivetti ma anche della Telecom, della Tim, di tutto.
Ma chi è che ci ha guadagnato e chi ci ha rimesso? Dice Giuseppe Oddo, autore di “L’Affare Telecom”: “Ci hanno guadagnato i soci della Bell perché tutto il premio di maggioranza è stato incamerato da coloro che avevano scalato la società”. I piccoli azionisti guadagnarono, sostanzialmente, all’epoca di Colaninno, ma poi non hanno visto il becco di un quattrino quando la società è stata comprata da Tronchetti.
Colaninno, Gnutti, i loro amici imprenditori e banchieri fanno il più grande affare della loro vita: nelle loro tasche finiscono oltre 7 miliardi di euro. L’ex manager dell’Unipol, Consorte, e il suo braccio destro Ivano Sacchetti intascano 50 milioni di euro per una ancora non meglio precisata “prestazione professionale”. Ma le scatole cinesi della Bell hanno anche fatto sospettare di poca trasparenza. Non si è mai saputo chi ci fosse dietro l’Oak Found, il fondo Quercia, con sede nelle Isole Cayman.
Franco Bernabè, al vertice della Telecom nel 1999, cerca di opporsi alla scalata di Colaninno e convoca un’assemblea degli azionisti alla quale però non si presentano né la Banca d’Italia né il direttore generale del Tesoro.
Colaninno e Gnutti comprano la Telecom, ma la luna di miele con gli azionisti finisce presto perché invece di ridurre i debiti comprano in varie parti del mondo e alcune operazioni sono discutibili. Come l’acquisto della Seat, l’azienda delle pagine gialle. Il governo nel ‘96 decide di scorporarla dalla Stet, cioe’ dalla famiglia della Telecom. La privatizza e la vende per circa 850 milioni di euro alla OTTO, una finanziaria lussemburghese dove ci sono imprenditori italiani. Ma Gnutti e Colaninno pochi anni dopo la ricomprano pagandola però 6,7 miliardi di euro. E da chi la comprano? Da quel gruppo che l’aveva acquistata in sede di privatizzazione. Però, dietro quel gruppo ci sono, in parte, ancora loro. Cioè Gnutti e Colaninno con una mano vendono in quanto soci della Otto, con l’altra comprano in quanto proprietari della Telecom. Vengono pagati 6,7 miliardi di euro, a scapito di migliaia di azionisti dalla Telecom, per comprare una società che ha la sede sempre a Torino, a pochi metri di distanza. Eppure quella montagna di denaro è dovuta passare per il Lussemburgo.
Chi ci ha guadagnato in questi passaggi? Ricorda sempre l’autore di “L’Affare Telecom”: “Ci hanno guadagnato sostanzialmente i gruppi e le società estero-vestite dietro cui si nascondevano molti azionisti di nazionalità italiana che privatizzarono per 4 lire la società, mi pare di ricordare tra il ’96 e il ’97, poco prima della privatizzazione della Telecom”.
Nel 2001, con il cambio di governo, arriva Tronchetti Provera. La sua catena di società è ancora più lunga di quella di Colaninno e Gnutti. Una torre di otto piani: in cima l’Mpsapa , l’azienda di famiglia, che controlla la Gpi, che controlla la Camfin che a sua volta controlla la Pirelli e company, nota come la Pirellina, che controlla la Pirellona, cioè Pirelli spa, che controlla l’Olimpia che controlla l’Olivetti che finalmente controlla la Telecom.
Uno dei fatti inspiegabili del passaggio di mano della Telecom da Colaninno a Tronchetti è questo prezzo esorbitante. Tronchetti paga le azioni 4,17 euro, il doppio della valutazione di borsa. I soldi per comprare la Telecom arrivano ancora una volta dagli Stati Uniti. Nel 2000 Tronchetti vende la Optical technologies alla Corning. È la Chase Manatthan che aveva già finanziato la scalata di Colaninno, che trova i miliardi di dollari da versare a Pirelli. La Corning paga l’Optical di Tronchetti 160 volte il suo fatturato, e sono bastati nove mesi per capire che razza di affare avesse fatto: un buco di 4,7 miliardi di dollari e 4000 dipendenti licenziati. Risulta abbastanza difficile comprendere come mai una società americana paga quelle cifre per un brevetto o un’attività nella fotonica che erano ancora nella fase abbastanza embrionale, insomma furono pagate delle cifre straordinarie.
La prima operazione di Tronchetti, nonostante sia in una posizione di monopolio con le Pagine Gialle, è quella di comprare le Pagine Utili, una piccola società controllata Fininvest messa in piedi dalla Mondadori e dall’On. Dell’Utri. Un acquisto però che necessitava dell’approvazione dell’antitrust.
Era abbastanza facile prevedere che l’autorizzazione non sarebbe arrivata. Ci fu una penale di 55 milioni, se non ricordo male, di euro, che la Seat pagò alla Fininvest perché questa operazione non andò in porto. Questa penale a molti sembrò molto elevata perché non si capiva perché. E anche un po’ equivoca... Come dice Giovanni Pons: “Si, insomma c’è qualcuno che l’ha messa in relazione ad altre, diciamo un po’ all’interscambio di favori che in quel periodo ci fu tra il gruppo guidato da Tronchetti e il gruppo Berlusconi, ecco”.
Dal 2001 al 2006 sono anni in cui tutte le società di telecomunicazioni vanno male. Per Telecom, però, i guai veri cominciano quando la storia delle spie finisce sulle prime pagine dei giornali. L’inchiesta si allarga e coinvolge i vertici della security Telecom e Pirelli. A luglio del 2006 Tronchetti Provera si presenta ai dipendenti e li rassicura. Da un video messaggio ai dipendenti di Marco Tronchetti Provera del 25/07/2006: “Questo che stiamo vivendo è un periodo di passaggio che avrà ulteriori elementi di disturbo, ma nulla toglie al fatto che l’azienda è sana, è fatta di gente per bene, un gruppo di cui io sono orgoglioso e che continuerò a guidare con lo stesso spirito e la stessa serenità e sono sicuro che Telecom Italia sarà il pilastro della ripresa italiana. Grazie e soprattutto abbiate fiducia in voi stessi, nell’azienda, impegnatevi e avrete grandi soddisfazioni. Arrivederci a tutti”.
Non passano due mesi e si dimette. La Telecom è piena di debiti e il consigliere di Prodi, Rovati, presenta un piano di riassetto che prevede l’aiuto dello Stato attraverso l’ingresso della cassa Depositi e Prestiti. Tronchetti Provera considera questo piano un’interferenza inaccettabile e se ne va. Sta di fatto che i conti non sono belli. La Practice Audit e Banca della Solidarietà su incarico della Cgil ha fatto un’analisi dei conti dei bilanci dal ‘99 fino al 31.12.2006. Le voci che adesso vedremo sono alcune indicative.
Osserva Sergio Cusani: “In questa tabella si può vedere che nel 1999 i terreni e fabbricati erano in carico a costi storici perché vengono dalla Sip, dalla Stet, quindi sono immobili già ammortizzati, antichi insomma a costi molto bassi, per 5 miliardi, nel giugno 2006 si sono ridotti a 789 e a fine 2006 vedremo dai dati di bilancio si riducono praticamente, si azzerano quasi. Hanno venduto tutto il patrimonio immobiliare”.
È finito nelle mani di chi? Il patrimonio immobiliare, quindi immobili ad uso uffici e destinati alle centrali è finito a diversi fondi e una parte anche a Pirelli Real Estate che è una società che fa parte della catena di controllo della Telecom. La Telecom. ha però, gli immobili che ha ceduto li ha ripresi in affitto in leasing a 30 anni. Una buona parte della vendita di questi immobili è stata fatta a trattativa privata, quindi potrebbe aver venduto per esempio a se stesso 1.270.000 mq a 787 euro al mq.
Aggiunge Sergio Cusani: “Sono tutte strutture che sono funzionali all’attività d’impresa. Se lei vede nel 1999 il debito verso gli obbligazionisti era 984 milioni di euro. Alla fine del periodo siamo arrivati a 33,4 miliardi di euro rappresentati in bond collocati sul mercato di mezzo mondo. L’utile netto consolidato, quindi di tutto il gruppo Telecom non solo in Italia, ma anche nel mondo, produce in questo periodo 15 miliardi di utili e ne distribuiscono 21,9, quindi quasi 22. Quindi distribuiscono 7 miliardi di euro in più di quanti utili hanno prodotto a livello consolidato di gruppo, a livello mondiale. Hanno dovuto prendere questi soldi dalle riserve. È come qualcuno che si vende l’argenteria di casa per far fronte al pagamento dell’affitto alla proprietaria”.
E fra i proprietari ci sono sempre loro. “Mentre si riducono le immobilizzazioni materiali, le immobilizzazioni immateriali si moltiplicano per un numero elevatissimo. Si passa da 853 milioni a 48 miliardi. Che cosa vuol dire questa cosa? Che si investe su una speranza futura di ricavare reddito, quindi si investe su una speranza, sul futuro. Anche altre aziende hanno questa voce, ma per esempio la società Telefonica spagnola che era una piccola azienda quando Telecom nel 1999 era già un grande gruppo, adesso invece è diventata un’azienda più importante di Telecom e metà di questa cifra è in investimenti in avviamento, ma una parte importante di questa cifra è perché hanno comprato aziende che producono reddito mentre questo non produce reddito.
Nel 1999 il gruppo Telecom capitalizzava in borsa 114 miliardi di euro, a fine 2006 ne capitalizza 42 miliardi di euro con una perdita di 71 miliardi di euro di capitalizzazione, quindi hanno bruciato un valore di 71,7 miliardi, tenga presente che stiamo parlando di dicembre; il 16 marzo, la capitalizzazione era circa 40 miliardi di euro, quindi ancora inferiore rispetto a dicembre. Io questo lo definirei senza tanti complimenti il cosiddetto risparmio tradito: quelli che hanno investito quando valeva 114, oggi si trovano un valore dell’azienda, del gruppo, di 42”.
Dice Milena Gabanelli: “L’ufficio stampa della Telecom ci informa di non condividere l’interpretazione di questi dati. Comunque nei prossimi giorni si deciderà il destino della nostra più grande azienda di telecomunicazioni. A settembre, abbiamo visto, Tronchetti abbandona la nave a Guido Rossi. La ragione, o il pretesto, è l’interferenza dello Stato nel piano di riassetto, ma siamo anche nel pieno della prima ondata di arresti sulla questione dossier che dal punto di vista dell’immagine gioca la sua partita. I giocatori sono i protagonisti di quella centrale di spionaggio che si sposta da Pirelli a Telecom nel 2001, l’anno appunto in cui Tronchetti acquista Telecom (...)”.

Le comiche finali.
Questa era la prima parte di Report del 25 marzo. Ma come si muove, per usare le ottimistiche parole di Tronchetti, questo “pilastro della ripresa italiana” nell’ambito dell’immagine e della comunicazione? Diciamo che usa la comunicazione pubblicitaria dando un certo peso a quella cosiddetta “istituzionale”, che spesso è una cortina fumogena, un abile gioco degli specchi che confonde l’immagine con la realtà degli affari.
Già dai tempi di Colaninno, Telecom vola alto. Si rivolge a consulenti togati e agenzie importanti. Ricordiamo, per esempio, gli spot chilometrici del 2000 in cui si alternavano personaggi come Marlon Brando e Nelson Mandela, mostri sacri di Hollywood e premi Nobel. Mandela venne filmato dal regista Spike Lee, autore del film Malcom X, che montò sequenze di repertorio del discorso tenuto nel 1995 a Ginevra nel corso di una conferenza sulle telecomunicazioni dallo stesso Mandela, insieme a nuove immagini girate appositamente a Soweto. Il costo di quella campagna di comunicazione fu di 100 miliardi, di cui 20 per i costi di produzione, compresi i grandi testimonial. Detto col senno di poi, si può dire che quella campagna "toccante" ci preparava emozionalmente alla vendita e al passaggio da Colaninno a Tronchetti. Ma soprattutto, con questo tipo di operazioni, l’azienda vuole far dimenticare l’immagine antipatica di ultimo dei monopolisti detentore di quei privilegi riassumibili nella gestione, ad esempio, del cosiddetto ultimo miglio, per affermare un discutibile ruolo di reginetta della comunicazione. In realtà Telecom non fa comunicazione, non è uno scrittore, né un giornalista, ma si occupa principalmente di telecomunicazioni, di trasmissione di dati: nessuno, comunque, sembra farci caso. E così, con Tronchetti, la musica non cambia. Anzi, si esaspera la situazione, arrivando a dipingere Telecom come azienda depositaria morale del verbo comunicare. Incorrendo, putroppo, in qualche incidente che, arrivati alla fine della corsa, potremmo definire: “le comiche finali”.
Della comunicazione istituzionale Telecom si occupa la Young & Rubicam. L’agenzia viene da un periodo di alti e bassi. Dopo l’uscita di Gavino Sanna, nel 1994, arriva una coppia di direttori creativi, due talenti della pubblicità italiana, Maurizio D’Adda e Gianpietro Vigorelli. L’agenzia, dopo il declino di Sanna, riprende vigore, ma i due, anche a causa di qualche incomprensione col nuovo amministratore delegato, vanno via per fondare una propria sigla, destinata a diventare, guarda un po’, un’agenzia di successo. Dopo qualche tempo di stasi, in Y&R arriva un nuovo cambio ai vertici, con l’ingresso di un gruppo di dirigenti proveniente dall’agenzia di Emanuele Pirella, tra cui Massimo Costa, nuovo amministratore delegato, che già in precedenza aveva lavorato come account in Young & Rubicam, e Aldo Cernuto e Roberto Pizzigoni, direttori creativi. Forse non sono brillanti come i predecessori, ma questo è quel che passa il convento. Oggi, il “convento” è rappresentato dal gruppo in cui è confluita la Y&R: la WPP, capitanata da Martin Sorrell, con cui il nuovo amministratore delegato della Y&R Italia sembra in ottimi rapporti. Curiosa la nascita dellla WPP, per opera, appunto, di Sorrell, un ex direttore amministrativo diventato finanziere, che si è fatto le ossa nell'agenzia degli scaltri fratelli Saatchi. Sorrell si è creato la fama di "financial wizard" soprattutto in relazione a questa operazione. Del resto, bisogna essere un "mago" per trasformare la Wire and Plastics Products PLC, un'oscura fabbrichetta inglese di sacchetti di plastica per la spesa, nell'attuale WPP, quotata in Borsa e diventata un colosso della pubblicità, segnando così la fine di un'epoca: ieri la pubblicità era fatta dai creativi, oggi è condizionata dalle banche.
Ma ritorniamo alla pubblicità Telecom. Nel 2001, come abbiamo visto, alla Telecom arriva Tronchetti Provera, che il Financial Times definisce (in senso positivo, diciamo “creativo”) un “manager visionario”. Perciò ne risente, anche, la comunicazione pubblicitaria. C’è, evidentemente, la necessità di volare lontano, forse un po’ troppo. E Young & Rubicam libera i piccioni. Il tema del viaggio è “l’assenza di comunicazione”, perché, dice sempre la Telecom, “comunicare è vivere”. Nel 2003 esce uno spot-monstre (per lunghezza) che, dalla stessa azienda, viene descritto così:
“La campagna istituzionale di alto profilo e di impatto emozionale, ha l’obiettivo di riportare l’attenzione del Paese sui valori del comunicare. In un contesto sempre più denso di rumori di fondo e di uno straripante affollamento di forme superficiali di comunicazione, Telecom Italia con questa campagna intende dare un contributo sollecitando una riflessione profonda del ruolo primario e dell’impatto che la comunicazione ha oggi nella società. Come sarebbe quindi un mondo senza la comunicazione?
Una metafora di un viaggio immaginario: in una città dove manca la segnaletica stradale, dove il quotidiano che stiamo sfogliando ha le pagine immacolate, i dimostranti sfilano in una manifestazione con i cartelli bianchi, dove bianchi sono anche gli schermi del nostro computer e dei nostri apparati per la videocomunicazione.
La comunicazione è ormai parte integrante della nostra vita quotidiana: quasi un semplice e automatico prolungamento della nostra naturale attività sensoriale. Lo spot televisivo in quarantacinque secondi di “vuoto” di comunicazione è un invito a riscoprire i valori profondi del comunicare e di chi dedica tutti i propri sforzi in questo senso”.
“Alto profilo” contro lo “straripante affollamento di forme superficiali di comunicazione”. È inutile fare il processo alle belle intenzioni, ma c’è qualcosa che non quadra, nella pubblicità Telecom, un’azienda che si occupa di trasmissione di dati, non tanto di contenuti. Fare la morale alla qualità e alla “superficialità” della comunicazione degli altri è rischioso. Soprattutto, sinché non si scopre che lo spot di Telecom Italia - dalle pagine “immacolate” dei quotidiani, agli schermi bianchi dei monitor - è la fotocopia di un’idea, e del film costruito su quell’idea, di uno dei più quotati pubblicitari internazionali: Paul Arden, ex direttore creativo della Saatchi & Saatchi, scrittore di successo, regista di successo. Beh, dicono con sarcasmo i maliziosi colleghi italiani, se non altro, almeno i riferimenti erano di “alto profilo”. E oggi, a ragionare sull’incidente, salta fuori una divertente coincidenza: lo spot di Paul Arden venne realizzato per Telefonica. E chi è entrato in Telecom Italia, oggi, a quattro anni di distanza dall’uscita di quello spot? Telefonica. Proprio lei. Sarà per il citato “prolungamento della nostra naturale attività sensoriale”, ma la Young & Rubicam ha rivelato delle indiscutibili doti di preveggenza. Qui riportiamo alcune immagini selezionate dalle due pubblicità, perfettamente combacianti: come i giornali con le pagine bianche, per esempio.
Un anno dopo, assorbito con nonchalance il sarcasmo dei colleghi, si prosegue sulla stessa strada visionaria, con una pubblicità di nuovo “emozionale” e “ispirata”. Così si racconta Telecom: ”Comunicare è vivere è lo slogan che ha contrassegnato le ultime due campagne istituzionali del Gruppo Telecom Italia, quella di Gandhi e la precedente (pagine bianche), entrambe centrate sul valore sociale della comunicazione. Il filo conduttore è infatti lo stesso: riflettere sul ruolo fondamentale della comunicazione. Usando come testimonial d’eccezione dello spot il Mahatma Gandhi, immaginato sulla Piazza Rossa e in Times Square mentre comunica i suoi valori universali di pace e fratellanza, la campagna istituzionale 2004 aggiunge un nuovo concetto, che chiama direttamente in causa il ruolo del Gruppo Telecom Italia nell’innovazione tecnologica del nostro Paese: se la comunicazione avesse avuto a disposizione le moderne tecnologie, oggi che mondo sarebbe?”.
Le domande, in pubblicità, sono antipatiche e andrebbero evitate. “Che mondo sarebbe senza Nutella?”, si chiedeva anni fa la Ferrero. Ma non è spalmando le buone intenzioni di nutella che si risolvono i problemi. Né la pubblicità pretestuosa fa bene alle aziende.
La “nutella” di Telecom è, nella fattispecie, Gandhi. Che, contrariamente a quanto si possa immaginare, in pubblicità è un personaggio abbastanza inflazionato (ci viene da ricordare una pubblicità Audi, tra le ultime). Evidentemente gli eredi non disdegnano.
Prendiamo, per esempio, la musica di sottofondo (Sacrifice di Lisa Gerrard e Pieter Bourke) che accompagna lo spot Telecom con Gandhi: è presa in prestito dalla colonna sonora di The Insider (Dietro la verità), film di Michael Mann con Al Pacino, Russel Crowe e Christopher Plummer. Curiosa coincidenza. Insider racconta la vicenda, realmente accaduta, di un giornalista e di uno scienziato che mettono in ginocchio la potente industria del tabacco, dimostrando quello che le potenti lobbies ci hanno nascosto per decine di anni: che il fumo è nocivo. Ironia di una scelta non ben ponderata dagli autori dello spot: uno dei clienti “storici” della Young & Rubicam era proprio la più potente industria del tabacco, la Philip Morris.
Libertà d’informazione e manipolazione pubblicitaria: due aspetti inconciliabili della comunicazione. Quando esce lo spot, il pubblico, come spesso succede in Italia, si divide in favorevoli e contrari. Anche le opinioni degli “esperti” sono discordanti. Se Anna Maria Testa (quella di “Liscia, gassata, Ferrarelle”) lo elogia, il più blasonato e arguto Gavino Sanna storce il naso. Con ragione, perché lo spot è inquietante. Innanzitutto, viene operata una manipolazione. Si percepisce un discorso di Gandhi in inglese, amputato di un riferimento fondamentale (l’Occidente) e di un’altra frase. Ma, ciò che più colpisce, è la figura di Gandhi trasformata in una sorta di Grande Fratello onnipresente: nei telefonini, nei computer, negli schermi giganti delle piazze, dappertutto. Una situazione molto fantasiosa quanto improbabile (la tribù indigena semi-nomade che vede Gandhi in un notebook da tremila euro è un’autentica favola), ma soprattutto inquietante. Tanto che, non a caso, circola su YouTube una parodia dello spot, dove Gandhi è stato sostituito con Berlusconi: e così il cerchio del Grande Fratello si chiude, rivelando l’anima dell’operazione, tutta la sua ingenuità.
Lo spot è stato girato a Roma da Spike Lee, regista afroamericano, come abbiamo visto, non nuovo al rapporto con Telecom, che, forse, si intenderà di rap e hip-hop, ma che ha qualche difficoltà nella messa a fuoco della figura di Gandhi: che non era un telepredicatore americano, come vuol fare intendere lo spot, ma un uomo di azione che ha scoperto la non-azione per liberare il popolo hindu dall’oppressione inglese.
Dopo l’uscita dello spot, il giornale Sorrisi chiede un parere ad alcuni esperti. Alla domanda “se Gandhi avesse potuto comunicare così, oggi che mondo sarebbe?”, il critico televisivo Massimo Bernardini risponde: “Se Gandhi avesse potuto comunicare con gli strumenti di oggi, non lo avremmo sentito lo stesso. Nello spot della Telecom c'è un grande paradosso: non si sente cosa dice Gandhi. Se veramente volevano farlo parlare, avrebbero dovuto farlo sentire, e tradurlo. C'è un poderoso meccanismo di manipolazione. L'idea di togliere la parola "Occidente" è impressionante e, ancora una volta, paradossale. In nome della comunicazione si è manipolato un messaggio di Gandhi”. E Giovanni Iamartino, professore di Storia della lingua inglese all’Università di Milano: “Gandhi aveva grandi capacità comunicative, ma non mediatiche: si metteva in gioco in prima persona, per questo attirava il consenso di molti. Puntava sulla responsabilità individuale e sulla consapevolezza del singolo individuo. Il problema non è comunicare (con buona pace di Telecom), ma avere dei valori e delle idee da comunicare: Gandhi li aveva, in altri casi... La filosofia di uno come Gandhi è molto diversa da quella del mondo in cui viviamo e di una compagnia che si occupa di telecomunicazioni. E poi nello spot, la coppia col telefonino, il cinese davanti alla tele, i masai col portatile, e la folla davanti al maxischermo dimostrano come la comunicazione (la tecnologia per comunicare) crea la globalizzazione: Gandhi era certo contrario alla globalizzazione, che per lui era l'Impero Britannico".
Gandhi sembra, piuttosto, un pretesto (potrebbe essere il signor Rossi, e non cambierebbe nulla). Quello che percepiamo, nello spot, è proprio questo, un inno alla globalizzazione: la Philips che vende una webcam in India, la Samsung che vende un maxischermo a New York, ChiMei che vende uno schermo a Mosca, IBM che vende un computer a Londra, Microsoft che vende un software in Africa, Nokia che vende un telefonino a Roma, Sony che vende un televisore in Cina, e così via.
È possibile che gli autori dello spot non abbiano considerato questi aspetti, che pure sono importanti? Si dirà: questione di struttura mentale, o di spessore culturale. Forse. Come è stato scritto, la scelta di Gandhi come testimonial connota l’azienda dal punto di vista etico, crea una corporate image impegnativa, una reputazione aziendale altamente qualificante. Ma è anche vero che la pubblicità, come diceva un tempo Pirella, non è il mondo della verità assoluta, ma delle verità “parziali”. Questo, però, non lo consideriamo un pregio, perché, dove ci sono verità “parziali”, c’è manipolazione. E, quando il tempo è galantuomo, la manipolazione può spalancare scenari inattesi, soprattutto quando la pubblicità indossa una maschera impropria e si dà una connotazione, addirittura, “etica”.

Dal grande fratello alla vecchia zia.
A tre anni dall’uscita dello spot che mostra Gandhi come fenomeno mediatico, come inquietante Grande Fratello delle telecomunicazioni, scoppia lo scandalo Telecom, che possiamo riassumere con l’apertura della citata puntata di Report, con la brava Milena Gabanelli che dice: “ Dentro a questi uffici della Telecom di Milano i magistrati hanno scoperto una centrale di spionaggio. I protagonisti di quella che si sta rivelando la più imponente operazione di spionaggio dai tempi del Sifar (...) sono stati tutti arrestati. Secondo l’accusa, questa centrale avrebbe commissionato e confezionato dossier su circa 6 mila persone tra imprenditori, politici, banchieri, uomini dello sport e dello spettacolo, giornalisti e anche centinaia di dipendenti e azionisti del Gruppo Telecom Pirelli (...)”.
Ma facciamo un altro passo indietro, ritornando a tre anni fa. Lo spot di Gandhi è già in onda, quando Maurizio Costanzo allestisce una delle sue brillanti riunioni mediatiche a cavallo tra circolo Pickwick (a proposito di gioco dei ruoli) e tavolo di canasta. Allestisce un bel gruppo di ospiti entusiasti e accondiscendenti, dove si muove con la grazia di una vecchia, piccola zia; e invita uno dei due direttori creativi dell’agenzia che ha prodotto lo spot: è un copywriter; perciò, tra i due, è quello, diciamo così, abilitato a parlare. E lo fa anche bene: con qualche frase banale ("la comunicazione non è né buona né cattiva"), con qualche aneddoto, persino con un po' di commozione (quando ricorda l'erede di Gandhi che concede l'autorizzazione allo sfruttamento dell'immagine: e ci si chiede se la signora in questione si commuova ogni volta che si concede per fini commerciali ad Apple, al gruppo Volkswagen, alla stessa Telecom...).
Costanzo si agita sul palco, zittisce la platea, crea un po’ di suspence, ed esordisce così: “C’è uno spot in circolazione, quello della Telecom, quello di Gandhi sulla comunicazione... Piace moltissimo. Giustamente piace moltissimo perché è una bella idea. E qua c’è chi l’ha inventato!”. Seguono molti applausi e gli ospiti abboccano all’amo dell’intrattenitore. “Bellissimo”. “È fatto da un grandissimo regista”. Ma dopo una lunga sequenza di superlativi, soltanto alla fine due ospiti cercano di obiettare. La prima cerca di dire che il discorso di Gandhi è stato manipolato, ma, prima che riesca a dirlo, viene interrotta da Costanzo. Il secondo, Luigi Capasso, antropologo dell’Università di Chieti, dice che, sì, lo spot è bello, però a lui viene da pensare a Orwell: “Il controllo... questo mondo di ipercomunicazione sopra le nostre teste...” Neanche cinque secondi e l’obiezione del professore viene interrotta bruscamente da Costanzo che inneggia al progresso e cita Seneca: “Non si ferma il vento con le mani, è inutile che temiamo questo stato di cose...”. Giravolta sul palcoscenico, e cambio repentino di argomento. Fine. E buonanotte al professore di Chieti.
Non si ferma il vento con le mani. Inarrestabile Costanzo. Sono passati tre anni e ci venivano in mente le manine grassottelle e burrose di questo resuscitato dal cavaliere di Arcore, mentre si dà da fare sul palco, con i suoi superlativi, la cartelletta in mano, il suo strisciare da un ospite all’altro, il nervosismo ad ogni cenno di contestazione dello spot. E così abbiamo trovato la registrazione di quella trasmissione di tre anni fa (il frame che pubblichiamo si riferisce a quella puntata), e l’abbiamo rivista attentamente. L’abbiamo rivista e abbiamo capito. Oggi. Oggi che il Giornale di Belpietro scrive: “Oltre sette milioni di euro pagati da Telecom a Maurizio Costanzo per consulenze”. Che vuol dire? Che a volte il vento si ferma? Vuol dire che la Guardia di Finanza sta conducendo, da sette mesi, una verifica fiscale sulle spese sostenute dal gruppo telefonico. È una notizia che fa rumore. Ma Costanzo replica bonariamente e dice, lui che è uomo di mondo, ottimista e inarrestabile, che c’è poco da scandalizzarsi: attività consulenziali esistono in tutti i paesi, dice. Infatti, non c’è da scandalizzarsi se un giornalista viene messo a libro paga da primarie aziende come Telecom. Che poi a qualcuno possa venire il sospetto che certi rapporti tra giornalismo e affari possano portare ad addomesticare l’informazione (del resto, sette milioni di euro non sono greppole o ciccioli), ma, insomma, honny soit qui mal y pense. Né c’è vera sorpresa, perché nell’ambiente si sapeva da tempo che certi episodi importanti della comunicazione Telecom dovevano passare il vaglio dell’inarrestabile comunicatore de Roma. Però, una domanda ce la poniamo mentre rivediamo la registrazione dello show, con l’ometto con i baffi che agita i superlativi, elogia lo spot, esalta il direttore creativo, bloccando bruscamente qualsiasi obiezione: quando costruisce un monumento a Telecom, quando elogia lo spot di Telecom, quando dice che gran lavoro fa Telecom, che cosa fa: fa l’elogio dell’informazione o elogia i suoi sette milioni di euro di consulenze? Sulla vicenda dei giornalisti a libro paga, l’Adusbef ha presentato un esposto denuncia.

Conclusione: da Gandhi grande fratello, al "Big Brother Award 2007".
Il 19 maggio, a Firenze, si è svolto il convegno e-Privacy (il più importante appuntamento nazionale in materia), su "controllo sociale e tecnocontrollo". Nel corso del convegno, sono stati ufficialmente annunciati i vincitori delle varie categorie di premi del Big Brother Award, un premio "in negativo" ispirato al grande fratello orwelliano che ormai da anni viene assegnato in tutto il mondo a chi più ha danneggiato la privacy, spesso approfittando delle nuove tecnologie o delle molto discutibili iniziative "di sicurezza". Il Premio "Peggiore azienda privata" è stato assegnato a Telecom Italia, con questa motivazione:
"Migliaia di cittadini italiani sono stati intercettati da dipendenti Telecom Italia, titolare dell'unica rete nazionale di telecomunicazioni, senza garanzia costituzionale alcuna e senza esigenze dei servizi segreti o altre eccezioni legate a stati d'emergenza particolare. I loro dirigenti nella migliore delle ipotesi hanno omesso di controllare e di preoccuparsi di cosa facevano i loro dipendenti, nella peggiore è meglio non pensarci. Non ci sono parole bastevoli a descrivere lo scempio della privacy causato dalle intercettazioni; questa volta se ne sono accorti anche l'ufficio del Garante della Privacy ed il Parlamento, che si sono affrettati a legiferare in merito. Non dimentichiamo neppure "meriti" passati; dalle manipolazioni presso il CNAG a Super Amanda, da Radar ai sistemi per tenere sotto controllo persino la magistratura, Telecom Italia ha invaso e violato la privacy di tutti. Anche la gestione del dopo scandalo è stata poco soddisfacente, e certo ha mancato di classe; si vedano ad esempio le scuse di Tronchetti per tutta la vicenda che sembrano dirette più agli azionisti che ai clienti Telecom Italia ed ai cittadini italiani".
Brutta storia. In particolare, chissà come l’avrebbe presa il Mahatma Gandhi. E chissà cosa ne pensano gli autori dello spot (sia di quello con Gandhi, sia di quello delle pagine bianche), Isabella Bernardi e Marco Cremona, insieme ai direttori creativi Aldo Cernuto e Roberto Pizzigoni. C’è da fare qualche ulteriore riflessione, anche se immaginiamo la giustificazione: la pubblicità è pubblicità, mica un documentario. E già: anche quando la pubblicità sfrutta importanti valori etici per creare una corporate image “altamente qualificante” o per vendere merci? Meglio, molto meglio stendere un pietoso velo di silenzio. E far parlare, semmai, non chi ha qualcosa da mostrare, ma chi ha qualcosa da dire, magari a proposito di “etica” e di mercificazione. Come, per esempio, Frei Betto (attivista politico, scrittore, frate domenicano e teologo della liberazione), con questo appropriato intervento pubblicato all’inizio del 2007, dove si parla di merci e di menzogne, e, guarda caso, di agenzie di pubblicità e di Gandhi. Tanto per rimettere ogni cosa al suo posto. Con buona pace di Telecom, di Spike Lee, e di tutte quelle congregazioni pubblicitarie che vorrebbero farsi passare, come paventa Frei Betto, per missionarie.

Da Nigrizia: “Il fascino perverso della merce”, di Frei Betto.
La sua innocenza è passata. Oggi sappiamo che è una cosa che imbroglia, piena di sottigliezze metafisiche e di capricci teologici.
Il Financial Times di Londra ha scritto che la Young & Rubicam, una delle maggiori agenzie di pubblicità del mondo, ha divulgato la lista delle marche più conosciute da 45.444 giovani e adulti di 19 paesi. Eccole: Coca Cola (35 milioni di bibite vendute ogni ora), Disney, Nike, BMW, Porsche, Mercedes-Benz, Adidas, Rolls-Royce, Calvin Klein e Rolex.
Il direttore della Young & Rubicam ha dichiarato: “Le marche costituiscono una nuova religione. Le persone ricorrono ad esse nel tentativo di dare un senso alla vita. Le griffe possiedono passione e dinamismo necessari per trasformare il mondo e cambiare il modo di pensare della gente”.
La londinese Fitch, società di consulenza in materia di design, esalta il carattere “divino” di queste marche, sottolineando che, la domenica, molti preferiscono lo shopping alla messa o al culto. A sostegno di questa tesi, la Fitch presenta due esempi: le coppie che celebrano le proprie nozze nei parchi della Walt Disney World Resort, in Florida, e la nuova moda di bare da morto, firmate Halley, nelle quali vengono interrati motociclisti maniaci dei prodotti della Halley-Davidson.
La tesi non è priva di logica. Già Karl Marx aveva denunciato il fascino perverso della merce, tale da darle un carattere di feticcio. Fin dal suo inizio, la rivoluzione industriale ha mostrato come le persone non vogliano soltanto il necessario. Se dispongono del potere di acquisto, adorano ostentare il superfluo. E la pubblicità è venuta in soccorso del superfluo nel suo volersi imporre come necessario.
La merce, che dovrebbe soltanto svolgere un ruolo di intermediario tra le persone (persona-merce-persona), è arrivata a occupare i due poli della relazione: merce-persona-merce. Così, se vado a visitare un amico in autobus, il mio valore è inferiore di colui che va a fargli visita in BMW. Lo stesso vale per la camicia che indosso e per l’orologio che ho al polso. Non sono io, persona umana, che “faccio uso” dell’oggetto: è il prodotto – ormai vero feticcio – a darmi valore, aumentando la mia quotazione sul mercato delle relazioni sociali, o a far dire a un moderno “Cartesio neoliberale”: «Consumo, quindi esisto», e ai nuovi sacerdoti dell’idolatria consumistica: «Fuori del mercato non c’è salvezza».
Questa appropriazione religiosa del mercato è ben evidente nei moderni centri commerciali. José Saramago, narratore, poeta e drammaturgo portoghese, premio Nobel per la letteratura 1998, nel libro La Caverna (Einaudi) li ha aspramente criticati. Quasi tutti gli shopping center possiedono linee architettoniche tali da renderli cattedrali stilizzate. In verità, sono i nuovi templi del dio mercato.
Non vi si entra con un vestito qualsiasi, ma abbigliati come se si andasse alla messa la domenica. Si percorrono i suoi chiostri di marmo al suono di un gregoriano post-moderno, che tanto richiama la musichetta che serve a distendere i nervi nella sala d’attesa di un dentista. E dentro, tutto evoca il paradiso: non ci sono mendicanti, cattivi odori, povertà o misera. Con sguardo devoto, il consumatore contempla le cappelle che mettono in mostra, in ricche nicchie, i venerabili oggetti di consumo, “accolitati” da seducenti sacerdotesse.
Chi può pagare in contanti si sente in paradiso; chi ricorre al pagamento rateale (“dal prossimo gennaio, a interessi zero”) si sente in purgatorio; chi non può fare né l’una né l’altra cosa, si sente all’inferno. Poi, prima di abbandonare il tempio, tutti si “affratellano” alla mensa “eucaristica” del McDonald’s.
E c’è di più. La Young & Rubicam ha addirittura paragonato le agenzie di pubblicità alle congregazioni missionarie e ai mercanti musulmani che hanno diffuso nel mondo il cristianesimo e l’islam. Il suo direttore: “Tutti sanno che le religioni si sono basate sulla divulgazione di idee forti in grado di dare senso alla vita”.
La fede offre, sì, un senso soggettivo alla vita, ma lo “oggettiva” nella pratica dell’amore. Un prodotto di consumo, invece, dà soltanto l’illusoria sensazione di avere, grazie ad esso, più valore agli occhi altrui. In fondo, il consumismo è una malattia dovuta a mancanza di autostima, immaturità psicologica e timore angoscioso di fallire. Di certo, San Francesco d’Assisi e Mahatma Gandhi non ebbero bisogno di simili artifizi per “con-centrarsi” in loro stessi e “de-centrarsi” negli altri e in Dio.
Il peccato originale di questa nuova “religione” sta nel fatto che, a differenza di quelle tradizionali, non è altruista ma egoista; non favorisce la solidarietà ma esalta la competizione; non fa della vita un dono ma un possesso. Peggio ancora: pretende di donare il paradiso in terra, fornendo al consumatore beni che non potrà certo portare con sé nell’eternità (...).

T. N. T.