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La suoneria come antifurto: ovvero, mi fido di te

Siamo invasi dalle suonerie, spesso di cattivo gusto, perché l’elettronica di un telefonino, allo stato attuale della tecnologia, è in grado di produrre nient’altro che un suono disgustoso. Ma il problema non è soltanto la mancanza di risorse tecnologiche. Le musichette sono fastidiose, invadenti, un jukebox all’idrogeno insolente, che ci pervade in ogni momento della giornata, dalla mattina alla notte, dall’autobus, al treno, alla strada: dalla voce del pupo, a quella della fidanzata, a Beethoven, a Laura Pausini, a Ligabue, ci tocca subire di tutto.
La scelta della suoneria è come la scelta del nome di un figlio, ha un ruolo propiziatorio: rivela le aspettative, i nostri gusti, come ci poniamo di fronte al mondo, non tanto chi siamo, ma come vorremmo essere visti e considerati. La suoneria è l’esatto contrario dell’understatement. La suoneria è un problema di volume. Faccio chiasso, dunque sono. Non “io suono”: io sono. Che vorrebbe significare la prima voce del presente, e che invece è l’imperfetto del verbo essere. La suoneria è un segnale immediato delle nostre imperfezioni.
Il telefonino è molto diffuso nel nostro paese, più che in qualsiasi altro paese. Altro segnale significativo: perché, come è noto, il nostro non è una paese propriamente avanzato. Infatti il telefonino è uno strumento facile, è l’illusione a buon mercato di una tecnologia avanzata, che avanzata non è. È uno strumento ancora preistorico rispetto, che so, ad un server o a una rete aziendale o a un computer della NASA. Il suo uso più semplice è alla portata di tutti. E il fatto che sia facile, questo telefonino simplicio, semplice, strumento tardo, ottuso e spesso di forma panciuta e buzzurra, ma che emette dei suoni, scatta persino delle fotografie anche se di infima qualità, fa da orologio e da calendario, e ricorda persino i battesimi e gli appuntamenti, tutto questo ce lo rende magico. Certo. Perché il telefonino che parla senza fili è un oggetto magico che sommuove il subconscio e l’immaginario. Lui parla, e lo fa come un grande fratello, o come una zia ritardata, o come un confessore tollerante, o come un investigatore implacabile. Dipende dallo stato d’animo, dipende dal messaggio che trasmette, dalla buona o dalla cattiva notizia che comunica, se c'è campo, se la batteria non è esaurita da troppo stress.
Il telefonino può anche essere un oggetto di lusso, costoso, rappresentativo, uno status symbol luccicante. Ma, al di là del suo valore esteriore, c’è un valore intrinseco: il telefonino contiene notizie riservate, immagini private, un pezzetto del percorso della nostra vita. E questo lo fa diventare prezioso. E soggetto ai furti.
A mia moglie è capitata una cosa che avvalora qualche mia riflessione, soprattutto sul significato magico del telefonino che non tanto “parla”, ma soprattutto “ci parla”. Senza rete, senza fili, fuori dal contesto e senza traccia, dall’aldilà. Il telefonino non parla, soltanto, ma sente. Vede. Provvede.
È successo questo. È successo che mia moglie ha perso il telefonino a duecentocinquanta chilometri di distanza dalla sua residenza abituale. E lo smarrimento le ha procurato un vero dispiacere. Il telefonino era un Sony Ericsson comprato in offerta, insomma a una cifra più che ragionevole e abbordabile. Certo, soldi persi, e questo già procura dispiacere, ma il fastidio maggiore era rappresentato dalla consapevolezza di aver perso e dato in mano ad altri un pezzetto della propria vita: indirizzi, messaggi personali, foto dei propri cari, appunti e perciò una specie di mini diario. Perché il telefonino, ovviamente, è stato perso ma è finito subito in altre mani: ce ne siamo accorti subito.
Ce ne siamo resi conto perché mia moglie ha cominciato a telefonare al suo numero, ripetutamente, incessantemente. Ma non riceveva risposta, se non quella della voce registrata del suo provider, che alla fine ha emesso la sentenza definitiva: “Non è raggiungibile”. Fine. Spento. Chiuso. Avranno già cambiato la scheda. Avranno.
E invece no. Perché mia moglie è una persona ottimista e crede nella benevolenza del prossimo. E dirò di più: non ha grandi gusti musicali. Ma proprio questa sua benevolenza, unita al banale gusto musicale, è stata la sua salvezza.
Nel senso che una persona, una donna, ha raccolto il suo telefonino. L’ha tenuto alcuni giorni, e per alcuni giorni ha dovuto subire la suoneria di mia moglie, che è un pezzo di Jovanotti: “Mi fido di te... mi fido di te... mi fido di te...”. Non so se lo conoscete: è un tormentone.
E il tormentone ha funzionato. Quando mia moglie faceva squillare la suoneria, la donna che ha raccolto il telefonino veniva sommersa da una preghiera, un rito ripetitivo: “Mi fido di te... mi fido di te... mi fido di te...”. Quando la donna camminava per strada, dalla sua borsetta veniva fuori una raccomandazione implacabile: “Mi fido di te... mi fido di te... mi fido di te”. In ogni momento della giornata, il grande fratello era in azione: ti vedo, ti ascolto, ti parlo. E mi fido di te.
Dopo due giorni, la donna che aveva trovato il telefonino non ce l’ha fatta più. “Mi fido di te... mi fido di te... mi fido di te...”. Ha controllato la rubrica degli indirizzi e ha telefonato al primo nome, Angela; e così ha parlato con mia moglie, che intanto si era fatta prestare un altro telefonino proprio da Angela, una sua conoscente. La donna le ha detto: “Ho trovato questo telefonino. Io non voglio avere una cosa che non mi appartiene”.
Grazie, grazie, grazie. Mi fido di te. Adesso mia moglie ha di nuovo il suo telefonino. È sempre più benevola nei confronti del prossimo. E non cambierà più la suoneria: si fida di lei.