tontonews

Il sindaco che sentì una voce dopo la festa del patrono

(2007) Olbia è una cittadina sarda curiosa, contradditoria, disordinata nel suo sviluppo impetuoso sull’onda dell’industria turistica; porto e aeroporto in forte crescita; ghiotta attrazione per chi opera in ogni genere d’affari, soprattutto nel cemento. La recente campagna elettorale caratterizzata dalla partecipazione di papaveri che si sono esposti col primissimo piano - da Berlusconi, a Mastella, a Fini - conferma il ruolo di Olbia come piatto ghiotto e conteso nelle tavolate nazionali. Altri tempi, quando Elio Vittorini, in Sardegna come un’infanzia, dava di Olbia un’immagine disperata e malconcia: “Galline straccione disperatamente grattano nel terriccio”. Dagli anni della miseria, di un paese a vocazione esclusivamente malarica governato dall’arroganza di un podestà e di poche famiglie di ex ambulanti e di commercianti di origine meridionale, siamo passati agli anni del riscatto economico, non proprio limpido nella sua evoluzione, in quanto fondato soprattutto sulla malgovernata edilizia turistico residenziale e sull’immenso indotto che segue il flusso turistico.

Oggi le galline straccione che attirarono l’attenzione di Vittorini non ci sono più. C’è il prepotente riscatto in barba a quegli anni, le signore col taglio alla Canalis o con i capelli tinti alla Michelle Hunziker che attraversano col Suv le stradine un tempo rigate dai liquami e adesso pomposamente elette “centro storico”: definizione che potrebbe sembrare impropria, ma che almeno ha permesso alla passata amministrazione forzista di accedere agli ingenti contributi della Comunità europea per il rifacimento di mezza città. Vittorini, se fosse vivo, resterebbe con un palmo di naso. Nei decenni a seguire, e soprattutto dal dopoguerra agli anni del boom economico, con la scoperta della vocazione turistica di questo lembo di Sardegna, la città si è offerta alle grandi ondate migratorie a largo raggio: regionale, nazionale, transnazionale. Perciò ha visto di tutto: dalla malavita organizzata - che nel cemento e nelle attività commerciali ripulisce lo sporco che produce - paventata dal procuratore generale Villasanta già negli anni Settanta, alla calata dei grandi immobiliaristi e costruttori, faccendieri e trafficoni, per non parlare dell’episodio più raccapricciante: l’inchiesta del giudice Carlo Palermo sul traffico d’armi e droga che coinvolse personaggi noti per le loro frequentazioni sarde, servizi segreti, piduisti, industrie belliche, finanzieri, partiti e governi, e persino uno spedizioniere olbiese (il giornale di Giuseppe Fava, I Siciliani, la definì un’inchiesta “insabbiata”; in realtà, il Tribunale di Venezia condannò nove dei molti inquisiti, tra cui lo spedizioniere olbiese, che in seguito vennero assolti dalla Corte d’appello). Vicende che farebbero pensare a una Poison City hammettiana, ma che vengono puntualmente digerite dal pragmatismo gallurese in questa ineffabile Olbia felix, appunto felix come tutti i luoghi di frontiera.

Olbia felice, non solo per il significato greco del nome, per la sua magica posizione geografica. Malgrado il cemento sia il motore di tutto, e fiumi di denaro di varia provenienza attraversino le vene fertili di questo nuovo Eldorado, tutto sembra in pace, una tacita pax tra potere politico e autorità di controllo. Nessuno disturba nessuno. Evidentemente, o tutto si svolge con il massimo rispetto della legalità (e non c’è motivo di dubitarne), oppure si confida sulle cartucce scariche della giustizia: si ricorda il caso di liti, cause, processi durati anche cinquant'anni, e comunque non c’è un solo amministratore che cada in fallo. Tutto perfetto. Anche troppo.

Qui il cemento è molto più veloce della giustizia: forma e vincola il consenso perché crea lavoro e un indotto articolato, accontenta tutti almeno col lavoro stagionale distribuito a piene mani, fortifica i clan, distribuisce ricchezza e favori. Costruiscono tutti, dal professionista diventato impresarietto, al faccendiere, alle cooperative, allo stesso Comune con le sue “grandi opere”, tra cui un museo (inaugurato tre volte, dicono con una buona dose di cattiveria gli olbiesi) che contiene quattro teche di cristallo. Ci dicono che sia impossibile trovare un operaio per una riparazione o una ristrutturazione, perché sono tutti impegnati a costruire. E ci si chiede, a questo punto, chi ha la volontà e la capacità di controllare le licenze, i permessi, per esempio la massa di slavi senza nome che da anni popolano i mille cantieri, dove dormono la notte e di giorno lavorano. Una manovalanza a basso costo che fa lievitare i margini di guadagno per le imprese, i costruttori, gli immobiliaristi. Ma questo è il prezzo dello “sviluppo”. Anche se uno "sviluppo" di questo tipo fa venire in mente le parole di Roberto Saviano: "Il tessuto connettivo italiano è il cemento. Cemento è il sangue arterioso della sua economia. Col cemento nasci e divieni imprenditore, lontano dal cemento ogni investimento traballa. Il cemento armato è il territorio dei vincenti".

La fortemente voluta nascita della nuova provincia Olbia-Tempio è un segnale dell’importanza, ma anche delle basi deboli, in termini culturali, sociali, politici, su cui poggia il presunto sviluppo. Significativo il fatto che, mentre in tutto il Paese viene chiesta la riduzione di sprechi nel settore pubblico e di enti inutili (ricordiamo che Olbia già accoglie una Comunità montana... al livello del mare), la Sardegna vede nascere ben quattro nuove province con scarsa popolazione ma con l’abbondanza del doppio capoluogo. Una scelta forzata, che nasconde interessi che esulano da quelli dei comuni cittadini. È ormai leggendaria la puntata di Report dedicata alla proliferazione di nuove province, con l’intervista al nuovo presidente di Olbia-Tempio, Pietrina Murrighile, avvocato, che si mostra con eleganza alla telecamera, con una camicetta abbellita da un vistoso collare fiorito, stile aloha, che a una domanda carognetta dell’inviato di Report riguardo alle “convenienze” della carriera politica rispetto alla precedente occupazione di avvocato, risponde forse un po' ingenuamente: “Beh, chiaramente ha messo in conto che sicuramente sta cominciando a capitalizzare un’esperienza politica per cui alla fine potrebbe essere anche questo il risultato, perché no?... senatrice non mi dispiacerebbe! Visto che la mia domestica qualche volta mi dice scherzosamente la nostra Ilde Iotti? Perché no, mi piacerebbe!”. A cui risponde un’ironica e tranchant Milena Gabanelli in studio: “Se vuole ripercorrere le orme della Iotti, però è meglio sapere che lei aveva rifiutato la carica di senatrice a vita, ed è stata presidente della Camera”. Da allora, la molto ottimista signora Pietrina viene ingiustamente chiamata “la senatrice della ziracca” (ziracca=donna delle pulizie). Beh, comunque guardare a Nilde (non Ilde) Iotti è un bel vedere...

Diciamo la verità, Olbia non ha mai avuto una vocazione culturale: la prima vera libreria - peraltro mai affollata - venne aperta soltanto alla fine degli anni Sessanta. E si vede. In questo paesaggio stralunato, popolato anche da strani personaggi emergenti, carrieristi, politiconi, popolani come quelli irresistibili delle vite brevi di Ermanno Cavazzoni, insomma tutto l’universo bizzarro della letteratura di strapaese, anche la sigla scelta per indicare la nuova provincia è emblematica: OT, che al popolo più informato e navigato, cioè quello del web, suggerisce il solo significato possibile: Off Topic. E proprio in un mondo fuori tema, sospeso in una zona franca e fuori dal normale contesto europeo, come una navicella incontrollata e dispersa in uno spazio senza contorni, sembra che questa cittadina galleggi, nel mare di interessi tipici dei paesi in via di sviluppo, tra contributi dello Stato, della Regione e della Ue, sprofondata nel suo far west, come ha ricordato il candidato sindaco del centrosinistra, Nardino Degortes: “Si è andati avanti a colpi di deroghe, mettendo su una sorta di far west edilizio, senza regole”.

Olbia è una cittadina curiosa, se la si guarda come laboratorio di nuovi ibridi sociopolitici, comunque degna delle attenzioni della cronaca, non solo quella mondana dedicata alla Costa Smeralda dei Briatore e delle veline e letterine in versione asciugamano. Alla vecchia tradizione socialista, con ampi intervalli democristiani, da diversi anni si è sostituita la destra forzista e postfascista, che qui è molto devota a Silvio Berlusconi (che alla ricchezza del territorio gallurese ha sempre dedicato attenzioni molto particolari). In piena campagna elettorale, il sindaco uscente ha conferito la cittadinanza onoraria al Cavaliere, che tra certi indigeni ha lo stesso fascino dell'indimenticabile Lanciere Bianco (per i giovani che non possono sapere, per ragioni di età, ricordiamo che il "Lanciere Bianco" era un cavaliere tutto vestito di bianco con il suo cavallo anche lui tutto bianco che si batteva per la giustizia e per il trionfo del pulito contro lo sporco più sporco. Era il Carosello di un detersivo: Ajax, lanciere bianco, più forte dello sporco, che seguiva i caroselli di Ajax Tornado Bianco e che si impose in modo spettacolare nell'immaginario erotico delle casalinghe italiane).

Dunque, cittadinanza onoraria, ma non si capisce (nel senso che molti olbiesi non condividono la decisione dell'amministrazione comunale uscente) per quali meriti speciali: forse per i lavori di Villa Certosa realizzati in 50 ettari di costa sottratti a ogni controllo di legalità? Una zona franca, inaccessibile all'Autorità giudiziaria, dove su cactus e laghetti, cascate e agrumeti, il governo di Berlusconi aveva posto il segreto di Stato, bloccando i magistrati sardi che chiedevano di controllare le tante opere edilizie realizzate su un'area sottoposta a vincoli paesaggistici.

Tanta devozione da parte del sindaco ha dato i suoi frutti. L’ex premier era atteso il 19 maggio, subito dopo la festa patronale di San Simplicio, per il solito comizietto dal balcone e per la consegna della pergamena che attesta la cittadinanza onoraria al Lanciere Bianco. Ma, a causa di un malore, le onoranze (per carità, lo diciamo senza ironia) sono state spostate al 25 maggio. La comunicazione è stata data, nel corso di una conferenza stampa a cui sono accorsi i cronisti locali, direttamente dalla voce di "lui medesimo" Silvio Berlusconi, che ha parlato attraverso il telefonino di un sindaco agli sgoccioli ma visibilmente orgoglioso.

Alla fine, il Lanciere Bianco è arrivato il 25 maggio, accolto da ovazioni, preghiere, bandiere, stendardi e fischietti. Una folla organizzata (come nella migliore tradizione dei soldatini di Forza Italia) e osannante. Dopo pochi giorni Olbia ha votato, e il candidato della destra è passato con una percentuale bulgara: il 66,9 per centro delle preferenze, contro il 30 per cento del candidato del centrosinistra. È stato eletto Gianni Giovannelli, già consigliere regionale, che lavora nel settore dell'edilizia, perciò, se così si può dire, ton sur ton. Il centrosinistra si è presentato a brandelli, diviso, spaurito, litigioso, perdente in partenza. L’ex sindaco - quello del telefonino - non poteva essere rieletto per la terza volta, e così, con la benedizione del Lanciere Bianco che gli garantirà qualche ruolo di sicuro prestigio, ha passato lo scettro a Giovannelli e a una giunta composta da vecchi trasformisti (ex socialisti), da giovani scalpitanti, forzisti, postfascisti, che perciò imbarazza i vecchi olbiesi antifascisti: c’è la percezione, impalpabile, quasi un sentore, di brutti ricordi. Ma sono ricordi di cui, in una città che ha perso la memoria anche a causa delle ondate cicliche di immigrazione e ai frequenti ricambi della popolazione, è stata accuratamente sepolta ogni traccia.

Banduleri

A chi Olbia? A noi!
Con l’avvento della destra, il Comune di Olbia ha creato un suo sito web, con uno spazio dedicato alle piccole storie del passato scritte con molta grazia dalla sorella del nuovo sindaco. Storie di paese che cercano di costruire, con sforzo encomiabile e un po’ di fantasia, un’ossatura di società civile che, nella realtà, non c’è mai stata. Dove si parla di famiglie laboriose, signorine timorate di Dio, persino di un pizzico di presunta nobiltà, il progresso dell’auto e dei piroscafi, benessere, spensieratezza e joie de vivre... Ma la realtà era ben diversa: qualche famiglia di origine continentale arricchita con i piccoli commerci, qualche ozioso latifondista, indolenza cronica e mancanza di industrie, a parte qualche caseificio e la lavorazione del sughero (settore vitale in Gallura, chissà perché trascurato in quelle microstorie; eppure Olbia poteva vantare la presenza di un nome importante a livello internazionale come Intermundo: in città, c'è chi conserva i bellissimi calendari che l'azienda spagnola commissionava a Salvador Dalí) e una popolazione in buona parte ridotta alla miseria. Come testimoniavano i più attendibili Vittorini e, soprattutto, Emilio Lussu, secondo cui Olbia - che all’epoca si chiamava Terranova - vantava un primato poco nobile: quello di prima località sarda in cui le squadracce fasciste sperimentarono la “cerimonia” dell’olio di ricino. Nel racconto di Lussu, viene descritta la prepotenza di quelle famiglie che nel fascismo trovarono uno sbocco naturale, in contrapposizione a una popolazione coriacea, non allineata, ostile al fascismo; povera, forse, ma ostinata nella difesa della propria dignità.


Da “Marcia su Roma e dintorni”, di Emilio Lussu.
Terranova è una piccola città, sulla costa nord-est della Sardegna: la più vicina a Civitavecchia, nel continente italiano. La popolazione era antifascista, ad eccezione di poche famiglie di commercianti. Questi si misero a contatto con i fascisti di Civitavecchia e assieme concertarono una spedizione armata.
Da Civitavecchia partirono duecento fascisti armati di moschetto, di bombe, di due mitragliatrici. Avevano con sé anche quattro barelle. La partenza avvenne all’improvviso, al cader della notte, sul piroscafo postale diretto a Terranova; consapevole solo l’autorità di Pubblica Sicurezza. L’azione doveva essere di sorpresa.
Alcuni fascisti di Terranova facevano da guida.
All’indomani, allo spuntar dell’alba, il piroscafo arrivò a Terranova. La popolazione, ignara di tutto, dormiva ancora, quando, nelle vie, incominciarono a scoppiare le bombe e a crepitare le mitragliatrici. I fascisti, divisi per squadre, accerchiarono le case dei capi antifascisti, ne forzarono le porte e le invasero.
La guardia regia e i carabinieri, già preavvertiti, si attennero alle istruzioni ricevute e non uscirono dalle caserme.
Una trentina di oppositori furono sorpresi ancora a letto, legati e trascinati nelle vie. Gli altri riuscirono ad abbandonare le case, fuggendo dalle finestre e dai tetti, e si dettero alla campagna. La luce del giorno non era ancora chiara e i fascisti non riuscirono a bloccare tutte le vie d’uscita della città, com’era loro intenzione. Gli spari dei moschetti e gli scoppi delle bombe rintronavano nelle vie ancora buie, attorno alle sagome dei fuggitivi.
Nella casa di un dottore, mio amico, fu data la scalata anche dalle finestre. Ma egli era assente, per caso. In casa, vi era soltanto la vecchia madre, inferma. La povera signora fu colta da tale terrore, che perdé la ragione.
Le sedi delle organizzazioni di lavoro, dei circoli, dei combattenti e dei mutilati di guerra furono tutte saccheggiate. Le bandiere, sottratte, divennero trofei di vittoria.
La luce del sole vide la città conquistata. Il segreto, abilmente mantenuto, aveva assicurato il successo. Gli oppositori catturati furono condotti alla piazza centrale della città. Essi erano quasi tutti combattenti di guerra. In camicia e senza scarpe la gran parte, così come si trovavano quando erano stati trascinati fuori dalle loro case, furono fatti sfilare, tra gli squadristi. Questi, per l’occorrenza, avevano innestate le baionette ai moschetti che portavano sulle spalle, come scorte di guerra.
L’adunata generale era nella piazza centrale. Qui convennero tutti: in prima fila, i fascisti locali. Ed ebbe subito inizio, con tutte le regole del cerimoniale in uso, il “battesimo patriottico”.
Era questa una cerimonia che i fascisti dell’Italia settentrionale e centrale avevano istituito e praticato da tempo. Nel “battesimo”, l’acqua benedetta era sostituita prevalentemente dall’olio di ricino, che il neofita doveva ingoiare, per amore o per forza. Molti, a Torino, Milano, Firenze e Bologna, furono obbligati a berne perfino un litro. Allora il “battesimo” acquistava un carattere di maggiore santità. Come l’uomo, secondo la concezione cattolica, con l’acqua santa si redime dal peccato originale, così l’antifascista, secondo la religione fascista, con l’olio di ricino si redime dal delitto di antifascismo, cioè di lesa patria.
Se il neofita cedeva alle prime ingiunzioni e beveva senza discutere, la cerimobnia era rapida. Se opponeva resistenza, la procedura diventava complessa. Per questo, parecchi antifascisti furono uccisi; ché l’uomo che si ribella a redimersi è utile alla causa della fede e della patria più da morto che da vivo.
La Romagna ha molti di questi martiri. Ma, nella maggioranza dei casi, non si arrivava a questi estremi. Al ribelle, ridotto all’impotenza, veniva aperta la bocca, spesso con un congegno speciale che squadristi veterani avevano inventato e brevettato. La “Squadraccia” di Firenze divenne celebre anche per questo.
Nei casi di più ostinata resistenza, veniva adoperata la sonda, come nelle cliniche. In proporzione della ostinatezza dell’infedele e della misura della sua infedeltà, era graduata, scrupolosamente, la dose dell’olio di ricino. Nei casi misti, all’olio di ricino si aggiungeva petrolio o benzina e, qualche volta, anche tintura di jodio. I casi di grandi malattie e persino di morte seguiti a simile trattamento non erano stati rari. Le donne non venivano escluse da queste cerimonie, di regola riservate agli uomini.
Anche Roma, la città due volte santa, ha conosciuto questi battesimi femminili.
In Sardegna, nessuno era stato, fino ad allora, battezzato in questa maniera. Era dunque l’inaugurazione del sistema. L’Isola ha sempre seguito in ritardo i progressi della civiltà nazionale.
I fascisti, saggiamente prevedendo che le farmacie locali non avrebbero avuto olio di ricino a sufficienza, ne avevano portato con sé una buona quantità. L’organizzazione, dal punto di vista logistico, era stata perfetta. Non mancava alla spedizione neppure il cappellano militare: un frate che aveva fatto la guerra. Egli non era armato. Al posto della pistola aveva il crocifisso e sul braccio la croce rossa.
La cerimonia si iniziò al suono dei tamburi.
Il comandante della spedizione fece un breve discorso. Poscia, puntando la pistola sulla tempia del primo prigioniero, pronunciò la frase sacramentale: - Bevi nel nome della patria!
Ad uno ad uno, chi con riluttanza e chi con disinvoltura, bevettero tutti. Solo uno, un contadino ex combattente, si rifiutò di bere. Il suo netto rifiuto sorprese il comandante, che chiese spiegazioni. Ma il contadino aveva concentrata la sua volontà nella decisione della resistenza, e non parlò. Le minacce con la pistola riuscirono vane. I fascisti si sentirono offesi nella loro dignità e pretendevano giustiziarlo sul posto.
- Morte al rinnegato! - urlava la turba.
Nella piazza, le donne piangevano e gridavano terrorizzate.
Silenzio! - urlò il comandante, e fece suonare i tamburi.
Fatto cessare il rullo dei tamburi, il comandante ripetè, per l’ultima volta e in modo solenne, l’ingiunzione di bere. Il contadino aveva perduta la pazienza. Fissò bene il comandante in viso e gli gridò una parola che i dizionari puritani, per decenza, non contemplano. E non aggiunse altro. Ma ve n’era a sufficienza. La santità del battesimo era stata contaminata.
Il comandante non era un sanguinario.
- Un buon colpo alla testa! - ordinò al suo aiutante.
Era questi una specie di gigante, carico di distintivi e di sciarpe.
Rapido, impugnò il manganello a due mani, e lo abbattè sulla testa del sacrilego. Il contadino cadde tramortito. Il comandante chiamò il portaferiti e lo fece trasportare a casa sua in barella.
La cerimonia sembrava volgesse alla fine.
Fra i catturati, v’era uno dei maggiori esponenti dell’opposizione al fascismo, un avvocato socialista-democratico [...].