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(2007) Ho visto un re. Ah beh, sì beh...

RIFLESSIONI SUL NATALE.
(Dicembre 2007) Paul Buchanan (quello dei Blue Nile, per intenderci) è un musicista che ci piace molto per almeno due motivi:
1) Perché è andato all'università prima di decidere di aprire bocca e cantare.
2) Perché è sempre stato fuori dal coro (a parte... il coro che ha utilizzato in Happiness).
Fuori dal coro è anche il suo imperdibile "omaggio" al Natale che trovate su YouTube:
http://www.youtube.com/watch?v=5LZBdNLCXaU

SONY? MA COM'È BRAVIA!
(Dicembre 2007) Uno degli epiteti, o dei soprannomi, più diffusi nelle agenzie di pubblicità è il seguente: “La fotocopiatrice umana”. Un’offesa lapidaria indirizzata a chi copia le idee “creative” degli altri. “Quello”, si dice, “è una fotocopiatrice umana”. Ma, si sa, chi è senza peccato... eccetera. In realtà, la scopiazzatura, il plagio, lo “spunto”, in pubblicità sono peccati veniali. Una delle pratiche più diffuse tra i creativi pubblicitari - quasi un rito che esorcizza il panico della pagina bianca e il vuoto delle idee quando si comincia a pensare una campagna - è quella di sfogliare decine di riviste o di annual, e di passare in rivista chilometri di commercial stranieri. In qualche caso, per “rompere il ghiaccio”, come si dice, insomma per farsi qualche idea; in altri casi, per copiare spudoratamente. E così, ogni anno, possiamo contare diversi spot che, se non ricalcano, spesso ricordano idee già viste.
Ma che cos’è il plagio nel territorio, come quello pubblicitario, della creatività? Più semplice dire che cos’è la creatività. E, per farlo, ricorreremo a una frase apparentemente banale attribuita a Jacques Maximin, ai tempi chef dell’hotel Negresco di Nizza: “Che cos’è la creatività? Creatività è non copiare”. È una regola che vale per tutti, non solo in cucina: dalla grafica alla letteratura, dal cinema alla cugina televisione, alla pubblicità. Ma viviamo in una società fondata sulla competizione: retaggio dell’antica Grecia, che Nietzsche, e non solo lui, definiva “agonistica”. I pubblicitari corrono e si rincorrono, vengono messi sotto stress, devono rispettare i tempi stretti dettati dal cliente e meritarsi il budget. Devono fare “di più”. E fare “di più”, in questi tempi di perdurante siccità di idee, non è cosa da poco. Perciò copiare, o prendere un “piccolo spunto” da un’idea di altri, diventa una comoda scorciatoia per fare di più facendo il meno possibile.
Qualche esempio? Almeno un caso clamoroso lo trovate in questo stesso blog, insieme ad altri sparsi nelle varie categorie. Qui, invece, e alla fine di un anno moscio sul piano della creatività pubblicitaria, vogliamo citare un caso meno spudorato: diciamo che non si tratta di un plagio, ma, forse, di un’idea in prestito: il caso Sony Bravia.
In un commercial in onda questo dicembre, e in tempo per i regali natalizi, Sony promuove il suo televisore Bravia con un inno al colore, o meglio ai molti colori: un fiume variopinto di pongo si diffonde nella città, con una girandola animata di forme e colori. Un trionfo dei colori che si sviluppa al ritmo di un vecchio brano (1967) dei Rolling Stones: “She’s a Rainbow”. Il risultato? Beh, sì, magari è carino. Però ricorda tanto un commercial di quasi un decennio fa, con cui Apple promuoveva, in una girandola altrettanto animata di forme e colori, i suoi iMac colorati (un modello che segnò il rilancio dell’azienda e il successo personale del redivivo Steve Jobs). E qual era il brano su cui era costruita l’animazione del commercial Apple? Non ci crederete: era proprio “She’s a Rainbow”. Come nel film Sony Bravia.
Qui trovate lo spot Sony:
http://youtube.com/watch?v=CLUAbkRUvVQ
E qui lo spot Apple:
http://youtube.com/watch?v=68qCGzF4EN8

LE CASE CHIUSE DELLA MODA.
(Dicembre 2007) La serie invernale di Report si è chiusa con una puntata dedicata a “Moda Nostra”. Considerando la premessa, ci aspettavamo una puntata di fuoco, con chissà quali rivelazioni, ma il risultato è stato un po' debole. Capita anche nelle migliori trasmissioni.
Report ha detto e fatto vedere quello che sapevamo:
1) Il Made in Italy è spesso fatto in Cina e in Romania.
2) Una borsa pagata 440 euro in via Montenapoleone può costare meno di 30 euro di manodo
pera.
3) Le multinazionali della moda fondano la propria spropositata ricchezza sul
l'aspirazione al superfluo dei ricchi e su schiavismo e sfruttamento dei poveri.
4) Può accadere che una giornalista della Rai faccia un servizietto allo stilista e venga ringraziata con un paio di scarpe.

5) I supplementi dei giornali e le riviste dedicate alla moda sono meri contenitori di pubblicità, occulta e palese. Più spesso occulta. Più in generale, i giornali non affrontano il mondo della moda in modo critico ricevendo pubblicità in cambio del silenzio.
6) Capita che gli art director della pubblicità fatta dagli stilisti, che nel caso specifico vengono chiamati fashion director, siano gli stessi giornalis
ti o direttori delle testate giornalistiche dove quelle pubblicità vengono pubblicate. Questa è una delle cause per cui le pubblicità che hanno per tema la moda ci sembrano tipicamente insignificanti: perché sono fatte da incompetenti (oppure basta la tessera dell'Ordine dei giornalisti per promuoversi "art director"?). Ma, soprattutto, Report denuncia un possibile “conflitto di interessi”. La mancanza di trasparenza è un dato di fatto: per esempio, è raro che stilisti e case di moda si rivolgano - così come fanno tutte le altre aziende - alle agenzie di pubblicità, preferendo un regime autarchico, autoreferenziale, chiuso, protetto da qualsiasi sguardo indiscreto.
Dall’inchiesta di Report restan
o fuori le curiosità suggerite dalla premessa sulla “Moda Nostra”:
1) Chi investe nel settore?
2) Chi sono i veri attori?
3) Come nasce e dove finisce quell’incalcolabile flusso di quattrini?


CONSIGLI PER LA SPESA.
I Savoia hanno chiesto 260 milioni di euro agli italiani come indennizzo per i "danni morali" subiti a causa dell'esilio. Su La Repubblica del 21 novembre apprendiamo che il principe Emanuele Filiberto, rispo
ndendo alle domande dei giornalisti a Codogno, dove era in visita alla 207esima mostra zootecnica, ha affermato: "Se ci daranno ragione e riotterremo quello che vogliamo, è già pronta una fondazione nella quale devolvere i soldi". Poi, in un'intervista a SkyTg24, lo stesso ha precisato: "Sicuramente i Savoia li spenderanno meglio di come li sta spendendo questo governo".
Il
principino svizzero - che in Italia ha già pubblicizzato diversi generi merceologici, dai sottaceti Saclà, alle scarpe, agli occhiali Salmoiraghi & Viganò, e, come si è visto a Codogno, persino la riproduzione dei manzi - evidentemente confonde i consigli per gli acquisti con i consigli per la spesa.
Fatti, non parole. Il Comune di Galte
llì, grazioso paese delle Baronie in Sardegna, ha recentemente modificato i nomi delle strade intitolate ai Savoia sostituendoli con riferimenti ritenuti più appropriati. La decisione rientrava in un più ampio progetto di rivalutazione del decoro urbano.

IL GIORNALISTA PIÙ VECCHIO DEL MONDO.
La scomparsa di Biagi è diventata l'occasione per un esame-bilancio del mestiere di giornalista in Italia. Innanzitutto, i giornal
isti si sono interrogati: "Morto Biagi, chi resta?". Pare che, in seguito a un sondaggio non ufficiale, la palma di giornalista più vecchio d'Italia, anzi del mondo, sia stata assegnata a Michele Serra, che, dalle pagine di Repubblica, non perde l'occasione di prendersela con "questi giovani", con punte di vera ossessione per la Rete, YouTube, videotelefonini e altri "ammennicoli" del vivere moderno.

IL COCCODRILLO DELLA SIURA BENZA.
(Novembre 2007) È morto a Milano il decano dei giornalisti it
aliani, Enzo Biagi. Nelle camera ardente allestita nel retro della clinica in cui è deceduto, molti milanesi, noti e meno noti, hanno fatto la fila per rendere omaggio a questo giornalista benvoluto e stimato, morto a 87 anni per vecchiaia, certo, per i problemi cardiaci che lo accompagnavano da anni, e per le complicazioni, come quelle polmonari, che spesso portano i vecchi all’addio alla vita. In questo addio, il giornalista portava all’occhiello il distintivo di Giustizia e Libertà. Tanto per rimarcare sino alla fine la sua cultura di partigiano, di uomo libero e resistente.
Giornalista della carta stampata, Biagi ha cominciato a fare televisione nel 1961, portando nelle case degli italiani un linguaggio chiaro e alla portata di tutti, e uno stile asciutto, tipico del cronista nato cronista, non opinionista (lo diciamo senza offesa per il grande giornalista, si parva licet componere magnis, ma a quella scrittura - così puntuale nella punteggiatura, così essenziale ma vivace, ricca di rimandi e di aforismi e di chiusure fulminanti, caratterizzata da un uso a
bile e misurato della retorica - chi scrive queste note si è spesso ispirato nella propria modestissima attività di copywriting pubblicitario).
Nella sua lu
nga collaborazione con la Rai, Biagi ha creato anche delle trasmissioni fuori dagli schemi, a volte innovative, e anche per questo si è costruito una fama di professionista autorevole e credibile, qualità molto rara nell’attuale spettacolo dell’informazione italiana generalmente addomesticata, vuoi per le ragioni della cosiddetta audience, o per il peso del potere economico e politico.
Proprio a causa della sua autorevolezza, Biagi venne cacciato dalla Rai dopo il cosiddetto “editto bulgaro” de
ll’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e in seguito alle affermazioni del ministro delle Comunicazioni Gasparri (già autore di una legge censurata dall’Unione Europea con grave procedura d’infrazione, a causa delle storture del sistema radio-tv provocate dallo stesso ministro molto sensibile alle ragioni del monopolio Mediaset). In seguito, Biagi, persona orgogliosa e coerente, rifiutò l’invito a ritornare a Rai Uno in una trasmissione di Celentano, perché i responsabili dello sfratto al grande giornalista erano ancora ai loro posti di comando nella tv di Stato. E lì sono rimasti, malgrado il cambio di governo.
Della compagine governativa che emanò il famoso “editto”, facev
a parte anche Letizia Moratti come ministro dell’Istruzione, e che già era stata messa da Berlusconi alla presidenza della Rai, ruolo non adeguato alle sue scarse competenze. Ora, tra tutte le persone e personalità che hanno reso omaggio al giornalista nella camera ardente, è stata vista anche Letizia Moratti, oggi sindaco di Milano. Intervistata dalla Rai, è sua la perla della giornata: “Biagi era un vero milanese”. Niente male per il giornalista orgoglioso di essere nato in un minuscolo borgo dell’Appennino bolognese, Pianaccio, che con Milano e la Lombardia, la regiàn piò récca d’la naziàn, ha veramente poco da spartire. E che a suo tempo aveva commentato l'elezione della Moratti come "vittoria dei padroni nella città dei danè".
Un vero milanese? Per cominciare, non crediamo che la precaria salute del vecchio giornalista abbia tratto gr
ande giovamento dall’aria irrespirabile di questi giorni, in questa Milano soffocata dalle auto e dagli impianti di riscaldamento spinti senza criterio. Né crediamo che il problema tocchi più di tanto il sindaco di Milano, moglie del petroliere Moratti e reginetta delle SUV, che i milanesi chiamano affettuosamente sgnàura Benza: la signora Benzina.

IL MISTERO DELLA SANITÀ.
(Ottobre 2007) Un mostro si aggira per le strade d’Italia. Con quel sorriso forzato, denti aguzzi in evidenza e guance arrossate, è un mistero incomprensibile che ha turbato milioni di italiani. Si racconta persino di bambini che hanno cercato di scacciare quest’incubo metropolitano chiedendo aiuto al Telefono Azzurro. Di che si tratta? Di un’affissione che ha invaso dal mese di ottobre le strade delle nostre città: un personaggio femminile con un’espressione conturbante, probabilmente di origine orientale, con cuffia in testa e il simbolo della Croce Rossa in negativo. E una scritta: "Pane, amore e sanità". Un messaggio misterioso, indecifrabile.
Quello che milioni di italia
ni hanno visto nelle strade delle loro città, e non hanno capito, è frutto dell’ingegno di un ministro della Repubblica: Livia Turco, nata a Morozzo in Piemonte e cresciuta dirigente del PCI, di cui, prima della nomina, non si conosceva alcuna competenza in tema di salute pubblica. Ora, a un anno e passa dall'insediamento in un ministero delicato e importante come quello della Sanità, la signora Turco ha pensato bene di spendere un po’ di soldi degli italiani in pubblicità. Iniziativa in linea con l’approccio tenuto sinora dall’esponente DS, che non avrà portato risultati degni di nota nella situazione del servizio sanitario nazionale (dove una donna deve attendere due mesi per una mammografia o un pap test), ma che ha prodotto la formazione, intorno al suo ministero, di un cordone sanitario di commissioni e consulenze da Isola dei Famosi, cominciando da Veronesi, per finire con il fotografo Toscani, autore dell’affissione di cui riferiamo. Affissione di cui non abbiamo capito il significato. Significato che anche la stessa Turco, evidentemente, non è riuscita a capire, tanto che ha dato incarico alla SWG di aiutarla nella difficile impresa.
La SWG è una società che fornisce ricerche di opinione e di mercato a enti e imprese impegnati a promuovere la propria immagine. E questo significa che quell’affissione aveva lo scopo di promuovere l’immagine della signora Turco e del suo ministero. Con quale risultato? Premesso che spendere i soldi degli italiani in pubblicità non necessaria, di per sé, non è una bella azione, il risultato è sconfortante. Il messaggio è oscuro, criptico, e il fatto che il committente si sia rivolto a una società di ricerche di mercato, per capire il significato delle proprie azioni, lascia di stucco. A fine ottobre, la SWG ha iniziato la sua indagine inviando un questionario nel quale veniva chiesto di valutare alcuni aspetti della campagna in questione, tra cui: efficacia del visual, efficacia dell’headline, giudizio generale sulla campagna e sulla sua efficacia.
L'azione, nel suo complesso, ha provocato qualche perplessità tra gli interpellati, insieme al fastidio per la leggerezza non reponsabile della comunicazione.
1) Che significato ha quel personaggio dall’aspetto di badante con il trucco pesante, accompagnato dalla frase “Pane, amore e sanità”?
2) Per quanto riguarda l’headline. A parte l’insignificanza, ricordiamo che la distorsione, la deformazione dei titoli dei film famosi era una caratteristica del cinema di serie B e C, dalle parodie di Franchi e Ingrassia ai film porno, giusto per chiarire (esempio: "Ultimo tango a Zagarolo"). Che facciamo, aspettiamo il seguito? Potremmo suggerire qualche remake: "2001: Odissea nell'ospizio", "La città delle nonne", "A mezzanotte va la sonda del piacere". E poi, insomma, che c'entra il film di Comencini, il maresciallo Carotenuto che si invaghisce di Maria Pizzicarella detta la Bersagliera, con il ministero della Sanità?
3) Come dovrebbe sapere ogni art director non a digiuno di sintassi del colore, il rosso su fondo bianco crea tensione, agitazione, turbamento. È vampiresco, scostante, respingente. Disturba. Allontana. Questa non è comunicazione: è una ferita lacerocontusa.
4) Il font dell’headline è usato a sproposito e rivela incompetenza nell’art direction. È un graziato grossolano che ricorda lo Stencil. Cioè un carattere usato un tempo nella spedizione dei pacchi, uno Stencil alfabeto da “cassa fragile, maneggiare con cura”. Se avvicinato al personaggio femminile orientale, all’emigrato, fa venire in mente la condizione dei clandestini impacchettati nei camion o nei gommoni, spediti verso la disperazione di un viaggio con scarse speranze. L’uso di quel carattere è sconveniente. L’autore avrebbe rischiato un risultato meno grossolano pescando a caso in qualsiasi campionario di caratteri, tra il font più usato nella segnaletica degli ospedali, come il Frutiger, o, perché no, il carattere disegnato da una donna, come il Mrs. Eaves. Ma per valutare e scegliere un carattere, e per fare una comunicazione efficace e responsabile, servono competenze, che evidentemente autori e committente della campagna ignorano. Salvo rivolgersi, per chiarirsi dubbi e idee, a una società di ricerche di mercato; quando, forse, sarebbe bastato chiedere al vicino di casa, a qualunque persona della strada. O, senza bisogno di spendere ulteriori soldi dei contribuenti, con una veloce ricerca su Google: scoprendo, magari, che i destinatari del messaggio hanno risposto con fastidio alla dubbia iniziativa del ministro, e persino con feroce sarcasmo, come è accaduto nel sito che qui di seguito segnaliamo e da cui abbiamo tratto alcune immagini divertenti, parodie micidiali della campagna del ministro:
http://gaming.ngi.it/forum/showthread.php?t=447141

LA RICETTA DEL PERFETTO IDIOTA.
(Ottobre 2007) Abbiamo visto il film Sapori e dissapori, remake americano del tedesco Ricette d’amore. Questo è peggiore dell’originale (che comunque non era granché), prevedibile anche se gradevole, dove tutto è melenso, persino le musiche de
ll’ex avanguardista Philip Glass, con una Catherine Zeta-Jones nella parte non credibile della grande chef frigida e acclamata di un ristorante figo a Manhattan. Il film attraversa i grandi enigmi della vita - dolore, morte, amore, e sul perché si butti via mezzo stipendio per una bistecca appena scottata - con una superficialità sostenibile giusto in quel museo delle cere che è Hollywood, ma si capisce che la guerra e pace che investe la protagonista è solo un prete
sto per far baciare, alla fine del film, i due graziosi protagonisti. Della commediola che comincia con l’amaro, continua con l’agrodolce e finisce con lo zabaione, non ci sarebbe molto da dire, se non fosse per quel quadretto che nel film rappresenta la svolta nella carriera del personaggio chef al femminile: quando il cliente (un perfetto rompicoglioni, ma tenuto in grande considerazione dalla padrona del ristorante) rimanda indietro due volte la bistecca perché secondo lui non è “abbastanza” al sangue, e la Zeta-Jones gli scaraventa un mezzo chilo di carne cruda sul tavolo, e non basta: gli sbatte i piatti per terra, gira i tacchi e se ne va, tra i battimani dei fans. Il cliente fa ovviamente la figura dell’idiota: primo, perché va in un ristorante da applausi Michelin per mangiare una bistecca con l’insalata; secondo, perché non capisce quello che dice, figuriamoci quello che mangia; terzo, perché si spaventa quando viene assalito dalla donna: incolto, idiota e vigliacco. Uno e trino. E chi poteva rappresentare quest’uomo senza sostanza e tutta apparenza? Semplice: il cliente rompicoglioni è un pubblicitario (“lavora in una grande agenzia”, dice la padrona alla chef, “ci porta un sacco di clienti”). Sorpresi? Per niente. Ormai è una prassi: quando Hollywood vuole rappresentare un idiota, sceglie sempre un pubblicitario.

GAVINO SANNA, UNA QUESTIONE DI ETICHETTA.
Gavino Sanna è un pubblicitario diventato famoso per la sua eleganza a tutto tondo: dal tono di voce, al modo di vestirsi, alla pubblicità prodotta in qualche decennio di onorata attività.
Dopo l’addio - forse per ragioni di età - all’attività pubblicitaria, si è dedicato al vino, fondando, con amici, vignaioli e l'apporto di un enologo di rango, la cantina Mesa nelle colline di Porto Pino in Sardegna.
Una cantina definita “all’avanguardia”. Ma, essendo praticamente astemio, Sanna si è riservato il compito esclusivo di pensare all’immagine del prodotto. Tra le notizie riportate, ci ha colpito l’affermazione secondo cui il pubblicitario di Porto Torres “ha inventato qualcosa di completamente diverso da tutto ciò che c'è in giro”. Tanto che l’intervistatore parla di “un guizzo della fantasia” a proposito delle piccolissime etichette, che descrive come “diverse”.
Con tutto il rispetto per il pubblicitario, e per il suo intervistatore poco informato, a noi quelle etichette non sembrano così “completamente diverse”: qui pubblichiamo la foto di una delle bottiglie di Sanna, e, a fianco, quella delle bottiglie disegnate tempo fa per Feudi di San Gregorio da quel gran genio del design che è Massimo Vignelli. Che, oltre le bottiglie e le relative etichette, ha curato (se non ricordiamo male, due anni fa) anche gli interni dei nuovi, eccellenti edifici-forum della storica società campana progettati da un importante architetto giapponese, Hikaru Mori.

LIGURI CONTRO TOSCANI.
(Settembre 2007) Si è svolta la quarta edizione del Festival della Mente a Sarzana, nella solita cornice molto pittoresca, con
workshop, conferenze, spettacoli, performance e laboratori. E con la partecipazione di un variegato mondo di intellettuali, storici dell'arte, etologi e botanici, genetisti e giornalisti, designer e psicologi, eccetera. Ha partecipato anche il fotografo Oliviero Toscani.
Riki è andata a Sarzana per i fatti suoi e ha partecipato a diversi incontri, alcuni interessanti, altri noiosi. È rimasta molto impressionata dalla conferenza di Toscani. Non perché sia andata a sentirlo (ci mancherebbe), ma per il fatto che, il giorno dopo, molti dei partecipanti ad altri dibattiti esordivano così: "Contrariamente a quanto detto ieri da Toscani...".


CHE COSA C'ENTRA LA McCANN ERICKSON CON MICHAEL MOORE? NIENTE.
Michael Moore ha presentato il suo documentario Sicko a Roma, a fine agosto. Il film denuncia le situazioni paradossali,
drammatiche, del sistema sanitario USA, in una società in cui 45 milioni di persone non hanno “il diritto umano alla cura”, e chi ha una polizza assicurativa rischia la bancarotta se la copertura non è totale. Moore ricorda come il suo paese sia al trentasettesimo posto nella classifica mondiale della salute, mentre la nostra vicina Francia è al primo posto e il nostro paese al secondo. Il ministro Turco, presente alla conferenza del regista americano, ha fatto suo l’elogio senza peraltro meritarlo. Del resto, lo stesso Moore dice che è a conoscenza dei casi di malasanità denunciati nel nostro paese.
Comunque, mentre Moore faceva il suo show in Italia e i giornali si interrogavano sulla situazione della sanità italiana e sulle differenze con il rude sistema americano, nello stesso tempo usciva una curiosa campagna di Luxury Box (la unit di McCann Erickson dedicata ai beni di lusso) per Orciani, azienda marchigiana che produce cinture e pelletteria. La campagna, dove le teste dei protagonisti delle foto sono coperte da un bollino colorato che, a detta degli autori, dovrebbe porre l’attenzione sugli accessori, viene definita “innovativa, di forte impatto, dal tratto unconventional”. Ma, a dire il vero, noi non capiamo l’obiettivo della campagna, dato che la prima cosa che ci viene in mente - forse per il fatto che gli annunci escono in pieno dibattito sulla nostra sanità - è il cosiddetto triage, cioè il codice guida adottato in Italia nel pronto soccorso e che assegna un codice colore ai pazienti: bollino rosso per imminente pericolo di vita, bollino giallo per situazioni gravi con tempo d’attesa non superiore ai dieci minuti, e così via.

CARO DIARIO. ANZI, MOLTO CARO (MOLTI DEBITI, POCHI LETTORI, NIENTE PUBBLICITÀ).
(Settembre 2007) Chiude il settimanale Diario diretto da Enrico Deaglio. Interessante il pezzo di addio (o di arrivederci), pubblicato nell'ultimo numero, che invitiamo a leggere:
http://www.diario.it/home_diario.php?page=wl07090600
È una piccola storia, un esempio di come si possa fare un giornale alternativo alla muffa delle edicole
. Che non è impresa semplice. Diario ci ha provato. E questo addio ci dispiace. Però vogliamo commentare velocemente alcuni passaggi dell’ultimo editoriale, che riguardano i motivi della chiusura e i buoni propositi sul futuro.

Il numero di siti web, di blog e in generale lo scambio di notizie è fortunatamente cresciuto a dismisura. La «buona lettura» è stata adottata da molti giornali.
Vero. Le cose, undici anni dopo l’uscita del primo numero, sono cambiate. Oggi possiamo scegliere come e quanto informarci, gratis, e senza bisogno di abbattere alberi. Anche se siamo consapevoli del fatto che la carta stampata ha tutto un altro fascino (e non solo, ma qui è meglio non dilungarsi). Per quanto riguarda, invece, la “buona lettura”, accettiamo questo pizzico di presunzione. Anche se dovrebbero
essere gli altri a giudicare. Pensiamo, tanto per dire, a quella volta in cui ci è capitato di leggere in didascalia Jacques Simenon, invece di Georges. Forse sarà migliorata la “buona lettura”, ma non il controllo-qualità.

Il mercato pubblicitario (l’unico a tenere in vita i giornali) è a noi praticamente precluso, per quella
mancanza di do ut des che ci caratterizza e che dal mercato evidentemente è stato ben colto.
A Diario hanno tolto l’ossigeno. Le concessionarie di pubblicità oggi hanno un potere enorme: possono far sopravvivere giornali come Libero, e far morire giornali come Diario. Ma Diario ha fatto le sue scelte. Se parli senza remore di Telecom, Barilla, Fiat o del governo di mezza sinistra, non puoi aspettarti che Telecom, Barilla, Fiat o il governo di mezza sinistra (che in comunicazione spende delle belle cifre) ti sovvenzionino con le loro pubblicità. Diario, però, avrebb
e potuto creare un’agile struttura casalinga in alternativa al potere delle grandi concessionarie, cercando gli utenti pubblicitari in sintonia con lo spirito del giornale. Difficile? Si può fare. Ma Diario non era neanche in grado di farsi pubblicità: ci ha provato almeno due volte, con risultati modesti e messaggi fumosi, rivolgendosi alle persone (o alle agenzie) sbagliate.

Speriamo di farci vivi al più presto con un nuovo giornale [...] bisognerà fare un bell’oggetto, facile da leggere e bello da conservare.
Qui nutriamo qualche ragionevole dubbio. Vada per la buona lettura, ma grafica e art direction erano penose. Diario, soprattutto gli ultimi tempi, sembrava un foglio di quartiere, un giornalino d
i parrocchia, un opuscolo del sindacato. Disegnare un giornale non è un’impresa facile, e l’Italia non vanta particolari talenti. Ma scegliere almeno un carattere decente: perbacco, basta un po’ di buon gusto. Per non parlare, poi, di certi fumetti sgraziati e inconsistenti.

L’ironia vuole che nascemmo in Italia con il governo Prodi e lì di nuovo siamo in solo apparente tedio e continuità.
L'ironia vuole che Diario soccomba con il ritorno di Prodi a capo di uno dei governi più spendaccioni, inetti e antidemocratici della nostra storia repubblicana. Caro direttore, immagino che l'affermazione ti sembri spiacevole, ma così è. E la coincidenza non è per niente casuale. È il governo del bavaglio alla stampa e al libero scambio di informazioni e materiali sulla Rete, della censura, dell'insofferenza alla satira, del controllo sui blog e della burocratizzazione della Rete (con tanto di ddl del 12 ottobre, che a noi ricorda, guarda un po', l'attività indefessa del MinCulPop).

[...] La nostra frasetta che sta appesa qui in via Melzo 9: «Cercate la verità, nel dubbio un po’ a sinistra».
I posti cambiano, anche a Milano. Chiudono le librerie, figuriamoci le redazioni. Si allargano le banche, i ristoranti cinesi, le panetterie che pesano il pane come se ormai fosse oro, i supermercati, le boutiques Dolci & Gabbati. Chi vince e chi perde. Però ci dispiacerà passare davanti a via Melzo 9, per andare dall'ottico o comprare la farina di kamut lì vicino, e pensare a quella frase. Che, nella disillusione generale e nel buio di questa cosiddetta "sinistra" al governo, ci sembrerà per niente illuminante. Anzi, un po' triste. Persino patetica.
Auguri, Diario.


CACCIA ALL'ERRORE.
(Agosto 2007) Nel cinema, i bloopers sono errori sfuggiti al regista, durante le riprese o in fase di montaggio: oggetti che cambiano posizione da un’inquadratura all’altra, anacronismi, incongruenze, e così via. Un esempio: Forrest Gump che diventa un ricco finanziere perché il suo capitano ha investito nella Apple (dice, testualmente: “He got me invested in some kinda fruit company”, cioè scambia la Apple Computer per una società di frutta). Peccato, però, che a metà degli ann
i Settanta non esistessero azioni Apple, dato che l'ingresso della società di Cupertino nel Nasdaq avviene molti anni più tardi, nel 1984. Altro esempio: nel film Goodfellas di Martin Scorsese, Joe Pesci spara a Spider con un revolver a tamburo da 6 colpi, ma esplode 7 proiettili. E questi sono soltanto due tra centinaia di esempi noti.
In pubblicità esistono i bloopers? Ovviamente, sì. Ne abbiamo visto uno di recente, in una rivista che si autodefinisce “di glamour”, e che potremmo annoverare nella serie “incongruenze”. È un annuncio stampa che ha per tema una borsa per donna, molto elegante e raffinata, diciamo pure “importante”. Tanto “importante” che il fotografo l’ha inserita in un’ambientazione ricca ma piuttosto confusa. La borsa è appoggiata su una scrivania con piano di cristallo, sopra dei documenti su cui è scritto “Top Secret”. Appartiente a una 007 in tailleur? O forse a una top manager, attiva, decisa, grintosa, aggiornatissima? Pensiamo che la seconda ipotesi sia la più logica. Sullo stesso tavolo, a sinistra, davanti a una poltrona in pelle bianca, si nota un computer molto elegante: è un iMac della Apple, la versione bianca. Peccato, però, che, mentre esce questo annuncio, Apple abbia prodotto una revisione potenziata di quel modello, con estetica completamente differente, cioè in alluminio e in nero. La Top Manager aggiornatissima non è al passo con i tempi? Forse. Ma c’è di più. Nessun Mac user collegherebbe il mouse direttamente al computer (come appare nella foto), ma sfrutterebbe uno dei due ingressi USB della tastiera. E, chicca finale, dall’iMac non spunta nessun cavo di alimentazione. Cioè quel computer è inutilizzabile. Insomma: la nostra Top Manager lavora, fa finta di lavorare o batte la fiacca? E soprattutto: ma lo sa usare un computer?

TUTTI IN GITA AL CIMITERO.
(Luglio 2007) L’abbiamo ricevuto con la posta, è un oggetto promozionale in veste di prodotto editoriale, si chiama I Cipressi e si presenta come “periodico di servizi e cultura cimiteriale”. Da estimatori di Charles Addams, abbiamo gradito. E lo diciamo quasi senza ironia. Anzi, ci sembra una delle iniziative editoriali più curiose di quest’anno.
Il periodico - ci sembra di capire - è curato da una società di servizi funerari che gestisce un servizio di lampade votive elettriche nei cimiteri milanesi. Nel numero che abbiamo ricevuto c’è un servizio sul Cimitero Monumentale di Milano, definito “un luogo di famiglia”. Altri articoli degni di nota: “Morituri te salutant” e un servizio sulle specie di uccelli che nidificano “nella quiete dei Campisanti”, con particolare attenzione al gufo. Appassionante l’articolo “Tutti in gita al Cimitero”. Interessante “Navigando... nell’Acheronte”, una ricerca di siti web dedicati al tema dell’ultimo viaggio, con la segnalazione di siti quali www.requiescatinpace.it, cimiteronline.org, cimitero.net, seppelliscimi.it, amicipersempre.it e deathclock.com, dove, segnalando il proprio stile di vita, si può sapere, o presumere, in anticipo quando si morirà. Utile anche la rubrica di domande impossibili, del tipo: “Si può prendere la scossa innaffiando o pulendo la lastra dei loculi con l’acqua?” (La risposta esatta è: no). Delizioso, poi, il finale, con l’angolo della poesia: Pianto antico.
Persino la pubblicità presente nel giornale è in tema. Per esempio, quella della Banca Popolare di Milano, che promuove “PrestoInTasca”, fino a 10.000 euro con un tasso del 5,5% tutto compreso, dedicato “a chi vuol affrontare le spese con serenità”. Un prestito dedicato anche ai funerali, si presume. Però affrettatevi a morire, perché l’offerta è valida fino al 30.9.07.
I Cipressi è un giornale che mette veramente di buonumore. Perciò attendiamo con ansia il prossimo numero: quando ci arriverà, avremo la consapevolezza di essere ancora vivi, se non altro, nel database di qualche società di servizi cimiteriali. Sempre che, nel frattempo, non accada l’inevitabile. Anche se ci siamo preoccupati di prevenire, leggendo la rivista con una sola mano.

I FRESCONI.
(Luglio 2007) L’Italia è al primo posto, tra i paesi europei, per l’acquisto di condizionatori. Pare che gli italiani siano impazziti per la tecnologia del fresco, anche dove la media delle temperature estive suggerirebbe come quello del gelo artificiale sia, più che un uso, uno sconsiderato abuso.
A volte costretti dalla mediocre qualità dei materiali e delle nuove costruzioni in cui, in fase progettuale, non si tiene conto, per incapacità o per ragioni di risparmio, né di bioedilizia, né del fattore esposizione, tempo e stagioni; più spesso agevolati dalla totale mancanza di veri divieti e di norme certe e severe, insensibili all’uso consapevole e oculato, all’inquinamento acustico spesso provocato da installazioni inadeguate e nessuna manutenzione, ai danni estetici in un paese che vanta un patrimonio architettonico unico al mondo, e soprattutto insensibili al risparmio energetico e agli effetti dell’inquinamento, gli italiani si sono lanciati nella nuova passione elevandola addirittura al ruolo di status symbol.
Come è noto, i consumatori italiani sono tra i più disinformati, ingenui e malleabili del mondo: costituiscono un materiale umano inerte che i pubblicitari stranieri ci invidiano da sempre. La corsa spropositata al condizionatore è dovuta, in buona parte, non tanto a questioni di salute o di piacevole benessere (non è raro scoprire abitazioni private e piccoli esercizi commerciali che spingono al massimo il condizionatore tenendo porte e finestre spalancate), ma a un massiccio lavoro di lobby: attraverso incentivi statali, attraverso gli allarmi del “grande caldo” lanciati periodicamente dalle redazioni di giornali e telegiornali, dove l’industria distribuisce in modo adeguato i suoi pierre.
C'è qualcosa che non quadra. A fine luglio (notare bene: a fine luglio), repubblica.it pubblica un articolo non firmato intitolato: "Caldo record a giugno. Raddoppia la mortalità". L'incipit è sconvolgente e degno del telegiornale di Emilio Fede: "Il caldo uccide". E ci si chiede: ma dove vive l'anonimo estensore, in un deserto africano? Mica per altro, ma, a parte qualche giornata particolarmente calda, non ricordiamo un mese di giugno così fresco e piovoso. E da Repubblica passiamo al Corriere: "Allarme rosso". Addirittura. A Milano "è allarme a livello 3". Non si sa che voglia dire, ma fa sicuramente un brutto effetto. Eppure, a noi sembra che ci sia anche una leggera brezza. Non boccheggiamo, non stiamo tirando le cuoia, stiamo benone. Perciò andiamo a controllare le temperature su vari siti, e tutti concordano: massima 33 gradi, umidità 67%, leggera brezza da Ovest. Insomma, una piacevole giornata estiva. Nulla di più. L'unica cosa che ci chiediamo è: perché i TG, Repubblica e il Corriere sparano cazzate? Mentre i giornali lanciano questi allarmi, i condizionatori si vendono come il pop-corn al cinema e i consumi energetici, di conseguenza, raggiungono picchi inauditi. Nello stesso tempo, Legambiente va in giro per negozi, a Milano, e rileva temperature di 19,7 gradi. Qualcuno fermerà questa follia collettiva?
In questo contesto di cattiva informazione e di interessi intrecciati, l’ultima invenzione, il colpo di grazia ai resistenti e agli scettici, è l’esposizione per una campagna di Mediaworld (l'agenzia è Cayenne) del custode del tempo e delle temperature, quel colonnello Giuliacci che calma o allarma - a seconda dell’occasione - gli utenti italiani sugli effetti devastanti di una pioggerella o di un raggio di sole. L’azienda tedesca, sfruttando i luoghi comuni, le paure immotivate e le passioni dell’italiano medio (la “tecnologia” alla portata di tutti, come il condizionatore, e la scommessa), ha fatto, con il concorso Freschi & Vincenti, esattamente quello che i fresconi si meritano.

SE IL CALDO FA PIÙ NOTIZIA DELLA CAMORRA.
Se lo chiede anche Giorgio Bocca su Venerdì: “È il solito caldo estivo in cui fa più caldo a Catania che al Sestriere. Ma una quarantina di canali televisivi pubblici e privati, generalisti e specialisti, di sinistra e di destra, di Berlusconi e di Prodi, parlano in continuazione del caldo. Che cosa ha di speciale questo caldo che debba essere la notizia principe ventiquattro ore al giorno?”. Anche noi abbiamo cercato di capire, ma la riflessione di Bocca è più elegante: "Si sa che parlare del tempo è sempre un modo per riempirlo, il tempo". Che sarebbe come dire: la lingua batte dove il niente duole.

ABOUT ITALIAN SOCIETY.
(Luglio 2007) Il 13 luglio, con un articolo sull'Italia per il Financial Times, Adrian Michaels si interroga sull'uso "incongruo" della donna nella pubblicità e in tv: "Since moving to Milan from New York three years ago, I have been wondering why no one seems to care about the incongruous use of women in advertising and on television, and what that says about Italian society...".
http://www.ft.com/cms/s/7d479772-2f56-11dc-b9b7-0000779fd2ac.html
L’articolo di Michaels ha suscitato molte discussioni, anche perché chiama in causa le donne (che fine ha fatto il femminismo?). In qualche caso, ha sollevato questioni o polemiche non del tutto pertinenti: chi ha replicato sostenendo che in Inghilterra o negli Stati Uniti si verifica lo stesso sfruttamento del corpo della donna; chi ha rimarcato il fatto che l’Italia è un paese maschilista. Ma pochi hanno affrontato il vero problema: glutei e seni esposti senza ritegno nelle trasmissioni televisive o nella pubblicità che inonda le nostre case e le strade, sono il segno di una malattia ben più grave di una forma patologica di sessualità come il voyeurismo. Perché l’Italia - un tempo simbolo della bellezza e del buon gusto - è un paese ammalato: di volgarità. E il vero dramma è che gli italiani non se ne rendono conto. Ma quest’impressione è ormai molto diffusa all’estero. Soltanto pochi mesi fa, un altro autorevole giornale, il New York Times, decretava la fine della presunta raffinatezza italiana, spiegando come nel made in Italy trionfi il banale, la mancanza di idee e soprattutto “una volgarità da bordello”.
Ora, si può dire che il fenomeno sia prettamente italiano, ma è anche vero che, sebbene in forme più sfumate, si sta allargando al resto dell’Europa. A questo proposito, ci viene in mente uno scrittore norvegese, Nikolaj Frobenius. Bisnipote dell’antropologo Leo Frobenius, figlio di uno psicologo junghiano e di una mamma che lavorava con i bambini delle scuole preelementari; sceneggiatore di Insomnia, thriller “hitchcockiano” di Erjk Skjoldjaeberg; autore di Il catalogo di Latour (in Italia: Il valletto di De Sade), e poi di Il giovane pornografo, una “favola morale” sul dilagare della pornografia di ogni giorno. Ricordiamo un’intervista allo scrittore, padre di una giovanissima Kitty, che, in quanto padre responsabile, si sentiva addirittura “atterrito da un mondo in cui le immagini attraverso le quali si propone oggi la pubblicità sono la pornografia di ieri”. Detto da un norvegese, fa riflettere.
Ma, ritornando all’articolo di Adrian Michaels e allo sfruttamento del corpo della donna, sarà bene che le stesse donne si interroghino sulle cause di questa deriva. Il giornalista ci porta a riflettere sul fatto che sono poche le donne manager italiane e quelle che occupano ruoli dirigenziali e importanti in politica. Vero. Ma se parliamo con donne "normali" che ci raccontano la loro vita nelle aziende, ci viene un sospetto: non è che quelle donne in carriera sono in carriera proprio perché replicano le cattive abitudini degli uomini? Facciamo un esempio. Il giornalista ha citato le gambe e le tette della Canalis mostrate al pubblico della strada per un'offerta di una compagnia telefonica. Molte donne hanno difeso la velina, sostenendo che, se qualcuno la paga per mostrarsi, non c'è niente di male. In fondo, questa velina è il nuovo totem delle pari opportunità, quando si offre un anno nel calendario di Famiglia Cristiana, e l'anno seguente nel calendario di Max. Contrariamente al giudizio dato a suo tempo da Antonio Ricci ("l'ho scelta perché aveva una faccia di polla"), la Canalis si rivela poco polla e molto furba. E la furbizia, da noi, piace. Ma veniamo al vero problema. Chi c'è dietro queste scelte: un maschio "arcaico"?
Lasciamo la Canalis (poverina, come se fosse lei l'origine del male...) e facciamo chiarezza andando indietro negli anni, all'inizio del fenomeno. Ricordate Megan Gale? Era la bonona, esagerata modella australiana che sostituì la Marcuzzi e che entrò prepotentemente nei sogni erotici dei maschi italiani, tramite la pubblicità di un'altra compagnia telefonica. E chi c'era dietro quella scelta? L’idea di scegliere questa testimonial, "in teleconferenza con l’Australia", viene a un ingegnere della Omnitel, studi all’International School di Milano, PhD al Mit di Boston, "mentalità tecnica e scientifica", e che perciò ammette in un’intervista “come cultura sono zero”. È una donna manager che si definisce "milanesissima", e in quell'intervista che citiamo (Repubblica del 17 luglio 2000), si vantava della scelta. Ma non basta. C’è un’altra persona che si contende questa ambita primogenitura. È un'altra donna. È Milka Pogliani, presidente e direttore creativo della McCann Erickson, che diceva in un'intervista: "Pensate a me come a chi vi ha fatto conoscere Megan Gale, e che l’ha fatta crescere. Nei primi spot Omnitel, nel 1999, mostrava tutta la fisicità e l’energia di una 24enne. Poi ha saputo trasformarsi in personaggio completo e trasversale: piace ai ragazzi e ai loro papà, le ragazze si identificano in lei e le mamme la vorrebbero come figlia”. Due donne, dunque, due donne "manager", hanno inaugurato quella tendenza al pornosoft (che, con molta eleganza, definiscono "fisicità") nella pubblicità dei telefoni così mal digerita dal giornalista del FT.
Ma ritorniamo alle questioni aperte da Michaels. Per quanto ci riguarda, possiamo rimarcare un primo sospetto, cioè che l’offerta di corpi e la diffusione della volgarità a tutti i livelli siano, più che altro, un difetto di cultura, il segno più tangibile della mancanza di idee che pervade l’ambiente pubblicitario e quello televisivo. L’inizio di tutto questo? Secondo noi, con l’avvento di quella rivoluzione “culturale” (termine improprio) delle televisioni cosiddette indipendenti, poi meglio definite “commerciali”. Evento che è ben rappresentato nel film di Moretti Il caimano: quando il protagonista offre in pasto al pubblico una squadra di ballerine procaci; le offre gratis, come merce, come "novità", come baratto in cambio di consenso, e il pubblico ringrazia con un fragoroso, straripante applauso.
I vecchi pubblicitari ricordano quando in pubblicità era vietato dire "olio vergine d'oliva": la definizione veniva puntualmente corretta in "olio puro d'oliva". Il quadretto dipinto da Moretti rappresenta la perdita della verginità, ma anche la trasformazione definitiva della scatola televisiva in una scintillante barellhouse. Michaels conosce quel periodo per sentito dire; certo, nel suo articolo parla delle televisioni di Berlusconi, ma non va sino in fondo: per esempio, scoprendo che quel personaggio che ieri offriva fondoschiena col tanga gratis, oggi non è soltanto un proprietario di televisioni, ma condiziona pesantemente l'industria culturale e la pubblicità attraverso la disponibilità di spazi pubblicitari, con Publitalia che già negli anni Ottanta diventa un imponente canale finanziario e, più tardi, la base per la costituzione e il lancio del partito di Berlusconi.
È questa l’Italia descritta dal giornalista del Financial Times: un paese arcaico. Voce dotta, aggettivo elegante, che secondo noi - e abbiamo visto come e perché - sottintende un giudizio più esplicito sull'habitat dell'italiano medio: un paese cafone. E, quel che non dice Michaels, lo aggiungiamo noi: ai primi posti in Europa per l'uso di tecnologie primitive (dall'automobile, al televisore, al telefonino) e agli ultimi posti per l'uso di banda larga e di tecnologie più complesse come il computer; che depenalizza il vaffan... (recentissima sentenza); che sputa per terra, che non chiede "permesso"; che trova giusto evadere le tasse; che passa con il rosso e stende i pedoni sulle strisce; che sporca e inquina; che invade l'architettura urbana con rumorosi condizionatori (primo posto in Europa) e antenne satellitari. E che, nel tempo che gli resta tra un'illegalità e l'altra, si dedica alla pornografia.

FIX IT AGAIN, TONY!
(Luglio 2007) Abbiamo letto un’intervista a Sergio Marchionne, apparsa sul quotidiano La Stampa, in occasione del lancio della nuova Cinquecento. L’Ad di Fiat ci è sembrato piuttosto euforico. E pensare che soltanto cinque anni fa Moody’s declassava le azioni Fiat abbassando il rating sul debito, con outlook negativo, portandolo al livello di junk (titoli spazzatura). Il fatto che Fiat stia producendo qualche modello decente di automobile, può giustificare un certo ottimismo, ma un po’ di prudenza (almeno per ragioni di scaramanzia) non guasterebbe. Comunque, è chiaro che Fiat ha cambiato registro anche sul piano dell’immagine. Dove ci sarebbe ancora molto da fare, soprattutto all’estero. Come dimenticare gli esercizi ridanciani degli stranieri sull’acronimo FIAT (Fabbrica Italiana Automobili Torino)? “Fix It Again, Tony”, che starebbe per “aggiustala ancora, Tonino”, secondo gli inglesi. “Feeble Italian Attempt to Transportation”, qualcosa come “fiacco tentativo italiano nei mezzi di trasporto”, per gli americani. “Fehler In Allen Teilen”, traducibile con “errori in ogni parte/componente”, per i tedeschi. “Ferrailles Invendibles A Turin”, cioè “rottami invendibili a Torino”, per i francesi. Una tradizione di giochini e insinuazioni molto irriverenti, e in parte immeritati, dura a morire.
Adesso, è uscito un nuovo commercial per la nuova Cinquecento, e Marchionne dichiara orgogliosamente di essere l’autore del testo. Sapevamo che era Leo Burnett l’agenzia incaricata, ma prendiamo atto della precisazione. Il risultato? Piuttosto confuso, a nostro modesto parere.
http://www.youtube.com/v/seJmEb0fcBA
Il film (proposto con differenti versioni) è costruito sul montaggio di una serie di spezzoni di cronaca in bianco e nero. Vediamo Falcone e Borsellino, i carabinieri, il papa, Teresa di Calcutta, l’orologio della stazione di Bologna, Pertini, Carla Fracci, Sordi, Totò, Montanelli, Coppi e Bartali, Eduardo, e alla fine una foto sul genere United Colors of Benetton. Di tutto, di più. Il commercial inizia con una scena di Nuovo Cinema Paradiso, e il bambino di Tornatore - che ride, piange, si turba alla visione delle scene - fa da collante. E chiude con la Cinquecento e una specie di payoff: “La nuova Fiat appartiene a noi tutti”.
Noi chi? Tutti gli italiani? Falcone, la Fracci, Montanelli? Verrebbe da precisare che la Fiat non appartiene agli italiani, ma è proprietà di alcune banche e degli Agnelli (e derivati). Vero è, invece, che la Fiat è costata molto agli italiani.
Nell’intervista citata, l’AD vola alto, avvicinando Fiat a Apple. E la chiamata in causa della società di Cupertino ha fatto rabbrividire i Mac users: perché la storia di Apple - società creativa in grado di sconvolgere le regole di mercato - è segnata dall’anticonformismo, quella di Fiat dal conformismo. In fondo, qui si parla di un’automobile. Una tecnologia primitiva che delizia gli italiani non evoluti (l’Italia è ai primi posti per diffusione di automobili, e agli ultimi posti per l’uso di internet e del computer). Con un computer fai un’automobile. Con un’automobile non fai un computer. Al massimo, ti schianti contro un platano o vinci un Gran Premio nel circuito di Montecarlo.
Ma non basta. Marchionne rivela che, per questo commercial, ha tratto ispirazione dalla campagna “Think different” creata dalla TBWA Chiat Day di Los Angeles per Apple nel 1997 (che, in un certo senso, possiamo considerare come un'evoluzione della leggendaria campagna "Think small" creata da Doyle Dane Bernbach per il "Maggiolino" Volkswagen nel 1960, dove, come per Apple, le caratteristiche "negative" diventavano qualità positive). Un passaggio storico, con cui Apple, utilizzando un linguaggio alto, particolarmente ispirato, faceva l’elogio della differenza, dell’anticonformismo, della “follia” creativa che cambia il mondo (non a caso, la voce fuoricampo della versione italiana era di Dario Fo). Cercando nella storia di personaggi “folli” la propria legittimazione di small e different in un mercato viziato dal monopolio di attori pigliatutto come, per esempio, Microsoft. Il film cominciava con le immagini di Einstein, Bob Dylan, Martin Luther King, Muhammad Alì, Lennon, Gandhi, artisti, scienziati, imprenditori "differenti", per far proprio il metodo dei geni ribelli che fanno progredire l’umanità, dei folli, degli anticonformisti, di chi non ama le regole, “specie i regolamenti”, dei piantagrane, di chi non ha “nessun rispetto per lo status quo”. Parole che oggi, con l'aria che tira, suonerebbero addirittura eversive e spedirebbero Steve Jobs dritto a Guantanamo. Ma, a parte l’ironia, chi, come noi che scriviamo queste righe, conosce bene la storia di Apple e utilizza da sempre i suoi prodotti, sa che quel “manifesto” del 1997 è stato generalmente rispettato.
http://www.youtube.com/v/gLqqJDSWvyU
http://youtube.com/watch?v=bPwv4MIHPcM
Ora, se il film di Apple era un vero “manifesto”, quello di Marchionne, in confronto, sembra un album delle figurine Panini. Una sequela retorica propria della pubblicità che fa finta di non fare pubblicità, e che si maschera di altro, di sociologismo, di campanilismo, di paternalismo e di altri ismi, soprattutto di qualunquismo, variando dal canto della sirena al trombone (senza offesa per il povero Ricky Tognazzi che fa da voce fuori campo); che fa un uso strumentale della cronaca italiana di questi ultimi decenni, accontentando tutti e nessuno, nascondendosi dietro carota e bastone, tra Bene e Male, tra Benemerita e quelli della P38, tra opposti estremismi e convergenze parallele; e che alla fine non dice niente, se non che è sul mercato un’altra city car che andrà a spargere benzene (anche se con emissioni drasticamente ridotte rispetto al bicilindrico della 500 progettata da Dante Giacosa nel 1957) e polveri sottili nell’aria che respiriamo. Perciò non si capisce quale filo leghi Falcone, la strage della stazione di Bologna, De Gasperi, Pertini, Valentino Rossi e tutti gli altri personaggi chiamati in causa per promuovere la nuova Cinquecento. Né dove si voglia andare a parare. Per non dire, poi, dell’incipit da illetterato: “La vita è un insieme di luoghi e di persone che scrivono il tempo. Il nostro tempo”. Avete mai visto qualcuno scrivere il tempo? E poi, diciamolo francamente, che brutta definizione della vita: così banale, così sciatta, così insignificante. Dato che l’esistenza è argomento ontologico per eccellenza, non sappiamo a quale categoria appartenga questa definizione: alla corrente del materialismo, a un programma di Piero Angela, a una canzone di Laura Pausini? E poi le persone, i luoghi... Ma dove avrà trovato l’ispirazione, il neo copywriter Marchionne? Nell’Atlante geografico De Agostini, forse.

Aggiornamento. A qualche settimana dalla campagna di lancio, perciò un po' in ritardo, anche il settimanale Diario (numero del 27 luglio) si occupa del commercial, con un approccio puntiglioso e interessante. Lo segnaliamo, condividendo molte opinioni espresse nell'articolo: Il minuto e mezzo di spot è così moscio da essere privo di significato (...). L'ipocrisia di questo filmato pubblicitario è sconcertante (...).

LA MOLTIPLICAZIONE DEI PANI E DEI PESCI? OGGI SI FA CON L’8xMILLE.
(Maggio 2007) In questa particolare stagione che ha per confini la dichiarazione dei redditi e l’inizio delle ferie estive, la Chiesa cattolica rischia il ruolo di big spender tra altri importanti utenti pubblicitari come Telecom, Fiat, Barilla.
In questi ultimi mesi, per la precisione dal mese di aprile, gli italiani hanno subito una martellante campagna per la promozione dell’8xmille da destinare alla Chiesa cattolica: nelle forme più tradizionali della pubblicità, come quella televisiva o sulla stampa, nella radio e nei new media, e in quelle più sfumate e collaterali, con manifestazioni di propaganda come il Family Day.
Invasiva e persino irritante la pubblicità televisiva, prodotta dalla Saatchi & Saatchi con gli occhi rossi e il fazzoletto in mano, con autentici sceneggiati sullo stile “Don Matteo”: preti che salvano orfani e aspiranti suicidi, che redimono delinquenti e sconfiggono la malavita organizzata, che liberano i commercianti dal pizzo e dall’usura, che resuscitano i moribondi, costruendo una figura di sacerdote che incarna una personalità multipla in bilico tra l’ispettore Callaghan e l’antico medico di famiglia come quello paternalista,
un po’ sciamano e un po’ dottore della Cittadella di Archibald Joseph Cronin.
Il risultato di questa massiccia propaganda sarà un’enorme massa di denaro - a cui si aggiunge una cospicua percentuale della parte di chi non ha indicato la destinazione del proprio 8 per mille - che confluirà direttamente in quella banca vaticana che fu capeggiata a lungo dal cardinale Marcinkus, l’indimenticabile “banchiere di Dio”: l’Istituto Opere Religiose. Ma come verrà impiegata questa montagna di denaro? Peccato che l’ADUC, l’associazione utenti e consumatori (www.aduc.it), ricordi come soltanto una minima parte dell’incasso finisca in carità. In effetti, dando uno sguardo all’ultimo rendiconto, scopriamo che una parte andrà a ripianare i deficit delle diocesi, una parte verrà impiegata per il sostentamento di 39 mila sacerdoti, una parte finirà nelle attività finanziarie del Vaticano, in edilizia del culto, nei cosiddetti “beni culturali”, e poi nelle “varie & eventuali”.
Nel capitolo “varie & eventuali” potrebbe aggiungersi, oggi, una spesa importante e non prevista. Da La Repubblica del 15 luglio:

L'arcidiocesi di Los Angeles ha accettato di pagare 660 milioni di dollari in indennizzi a 500 vittime di abusi sessuali da parte di sacerdoti cattolici, alcuni dei quali risalgono agli anni '40. Si tratta del più consistente risarcimento di questo tipo nella lunga catena di cause intentate negli Usa contro i preti pedofili e chi li coprì: ad ogni vittima andrà più di un milione di dollari. La prima udienza di fronte alla Corte d'Assise di Los Angeles era prevista per domani, ma l'accordo extragiudiziale pone fine alla vicenda. Dodici querelanti avrebbero accusato di molestie l'ex sacerdote Clinton Hagenbach, morto venti anni fa, ma l'obiettivo degli avvocati era di mettere l'arcivescovo di Los Angeles, il cardinale Roger Mahony, nell'imbarazzante posizione di dover testimoniare sulla risposta data dalla chiesa alle denunce di abusi ricevute tra gli anni '40 e gli anni '90. David Clohessy, direttore nazionale dello Snap, la rete che raccoglie le vittime degli abusi commessi dai sacerdoti, non vuole che l'attenzione dei media venga calamitata dalla consistenza dell'indennizzo. "Non è mai una questione di soldi", ha detto, "le vittime vogliono guarire, vogliono che venga impedito il ripetersi di cose simili, vogliono chiudere con il passato, vogliono che qualcuno sia chiamato a rispondere". Già nel dicembre scorso, l'arcidiocesi aveva sborsato 60 milioni di dollari per un accordo extragiudiziale con altre 40 vittime. L'arcidiocesi di Los Angeles dovrà vendere parte del patrimonio di 4 miliardi di dollari per pagare il risarcimento.

Su quest’ultimo punto, i radicali nutrono qualche perplessità. “I cittadini, è bene che sappiano: buona parte del loro otto per mille destinato alla chiesa cattolica servirà quest'anno a pagare i rimborsi dei preti pedofili in America”: lo sostiene Michele Bortoluzzi, della Giunta nazionale dei Radicali italiani. “D'altronde, nel bilancio della chiesa come di qualsiasi altro ente o impresa - avverte Bortoluzzi - i soldi che escono sono composti dalla somma, indistinta, delle partite di entrata. Quindi anche dall'otto per mille. Credo che molti cittadini versino alla chiesa per aiutare le missioni in Africa o per sostenere il lavoro in Indonesia per i bambini dello Tsunami - conclude Bortoluzzi - ma è bene che sappiano, però, che quest'anno i loro soldi andranno a finanziare i danni ai bambini dei preti pedofili, e per evitare che le questioni diventino pubbliche e giudiziarie”.
Ma è possibile che i radicali sbaglino. Ci sono diocesi proprietarie di notevoli patrimoni che, come dimostra il caso di Los Angeles, possono anche badare a se stesse. Per quanto riguarda l’Italia: malgrado i numerosi casi denunciati, malgrado l’ingente somma di denaro incassata attraverso l’otto per mille (l’Aduc stima una cifra di poco inferiore al miliardo di euro), non si ha notizia di risarcimenti da parte della Chiesa, che, difendendo con i denti l’istituzione, e soprattutto confidando in una giustizia sorda a questo genere di rivendicazioni, scarica abilmente il problema sulla responsabilità del singolo sacerdote.

Aggiornamento.
(Ottobre 2007) Cinque mesi dopo questo post, vi segnaliamo le inchieste di Curzio Maltese pubblicate su Repubblica:
Repubblica.it
Repubblica.it
Repubblica.it
Camera.it

GLI EUROPEI "VENGONO" INSIEME
.
Abbiamo visto su YouTube due dei 44 spot commissionati dalla Ue per la promozione della propria brillante attività:
http://www.youtube.com/watch?v=koRlFnBlDH0
http://www.youtube.com/watch?v=3kHoHH-05yI
I due spot si assomigliano: nel primo (Film lovers will love this!) si tromba, nel secondo (Romanticism still alive in Europe's films) un po’ meno. L’idea è modesta: una selezione di spezzoni di film per promuovere il cinema europeo. Soprattutto il primo ha provocato molte polemiche. I conservatori hanno parlato di spot immorale, i progressisti e i cinefili hanno criticato la scelta dei film di riferimento, perché trascura gli esempi più nobili della tradizione cinematografica europea. Il primo spot è costruito su una sequenza di scene di sesso, con finto orgasmo finale e il payoff Let’s come together ("Veniamo insieme"). Più che uno spot, una barzelletta difficile da capire, con quel doppio senso da commediola pecoreccia.
Il responsabile dell’iniziativa, la svedese Margot Wallström, vice presidente della Commissione europea incaricata delle Relazioni interistituzionali e della Strategia per la comunicazione, ha replicato all’accusa di volgarità tagliando corto: “È una questione di gusti”.
Risposta antipatica. Esaminando il primo spot con prevalenza di posizioni non missionarie, gli unici gusti che si intuiscono sono quelli della disinvolta vice presidente.

DELL'ELOGIO O DEL "CROCKODILLO".
Abbiamo letto, purtroppo con un certo ritardo (siamo gente mooolto slow), gli ultimi numeri de Il latore della presente, dell'associazione dei creativi italiani (Adci). In particolare, quello del 29 maggio 2006, con la corrispondenza da Los Angeles di un giovane creativo italiano, Marco Cremona. Cremona è un copywriter, co-autore del memorabile film Telecom sulla "mancanza di comunicazione", purtroppo simile al film di Paul Arden girato per Telefonica. Il latore della presente ha chiesto al copywriter italiano, trasferito nella Y&R di Los Angeles, di raccontare le sue esperienze nella metropoli californiana, con delle corrispondenze diciamo a largo raggio, dalla qualità delle fotocopiatrici (presumiamo), alle novità in ambito pubblicitario. Ci ha colpito una descrizione, con un elogio curioso del padrone di casa:
"Vi racconto delle due persone che più mi hanno colpito in questi primi sei mesi in agenzia. Una è il nostro CEO, Rick Eiserman. Ha 32 anni e avere un amministratore delegato così giovane è un segnale forte da parte dei vertici del network. Una scelta dinamica, fresca, croccante".
È la prima volta che sentiamo di un Chief Executive Officer "croccante": a quando un Ceo con un cuore di panna?

LA COOP SEI TU... TU... TU...
(Maggio 2007) Abbiamo visto un annuncio, e anche un commercial...
La Coop occupa un nuovo spazio: quello di operatore virtuale di telefonia mobile. Già da tempo venivano proposte le ricariche Tim marchiate Coop (cobranded) che si potevano prendere con i punti Coop: più che un commercio veramente redditizio, un altro modo per fidelizzare il cliente. Adesso, con CoopVoce, il definitivo accordo con Telecom Italia fa di Coop uno dei primi MVNO (Mobile Virtual Network Operator) italiani. In realtà, c'è ancora un po' di confusione: per il momento, non si capisce se sarà più vicina al ruolo di Enhanced Service Provider, e se venderà servizi di telefonia così come oggi vende altri prodotti a marchio Coop.
Intanto, ci si chiede se questo nuovo servizio porterà a una reale concorrenza e a una corposa diminuzione delle tariffe. Ma c’è chi ha esaminato la tariffa Coop, e la conclusione è deludente: non si riesce a vedere la convenienza di CoopVoce rispetto alle proposte di altri competitors. Insomma, niente di nuovo. Non a caso, Il Sole 24 Ore titola: “Tariffe facili ma il risparmio non è scontato”. In particolare, nell’offerta Coop disturba lo scatto alla risposta (15 centesimi), anche se mitigato dall’offerta di un bonus pari al 20 per cento di ogni ricarica effettuata. “Limitandosi a prendere in considerazione la tariffa base senza bonus,” scrive Il Sole, “Coop fa meglio di Tim; invece le proposte di Vodafone, Wind e Tre, sempre tra i piani tariffari a scatto, tenuto conto anche dei meccanismi di ricarica, risultano concorrenziali rispetto alla soluzione Coop”. Ma i sei milioni di soci Coop e familiari (18 milioni di potenziali clienti), a cui è destinata l’iniziativa, lo sapranno mai?
Da giugno, è on air anche la campagna pubblicitaria prodotta dalla Young & Rubicam, con un film di lancio sulle principali reti nazionali e una campagna stampa sui principali quotidiani nazionali (creatività di Dario Alesani e Umberto Mauri per la TV, e di Davide Breghelli e Mattia Peghin per la stampa, con la direzione creativa esecutiva di Aldo Cernuto e Roberto Pizzigoni). La campagna vuole far leva soprattutto sulla “novità” del servizio, mettendo l’accento su chiarezza, semplicità e convenienza, e su “tutte le garanzie Coop”, ma il risultato non appare così limpido.
In primo luogo, l'enfasi sulle "garanzie": beh, non si vede perché gli utenti Carrefour siano, per dire, meno garantiti. E così quelli dei quattro gestori italiani. E la convenienza? Come è stato scritto, è tutta da dimostrare. E la presunta semplicità? Il fatto che CoopVoce ti regali (si fa per dire) il 20 per cento di traffico telefonico ad ogni ricarica, aggiunge, insieme al peggior vizio dei gestori telefonici, cioè il famigerato scatto alla risposta, un’ulteriore complicazione nel calcolo della reale convenienza e nel confronto con altre tariffe. Piuttosto, ci riporta alla politica antipatica del 3x2 tanto in voga sino a poco tempo fa alla Coop, con la retorica infida del “più compri meno spendi”, che non rappresenta una chiara cultura del risparmio, ma ha una valenza fortemente consumistica.
Anche un tentativo di critica estetica, se così si può dire, della campagna pubblicitaria, dà addito a molte perplessità. Sulla stampa, si mette l’accento sulla voce "nuova” della telefonia mobile. Ma non c’è rivoluzione. Semmai, ne viene fuori un annuncio da festival delle voci nuove di Castrocaro, un’Italietta d’altri tempi un po’ stupita dalle tecnologie rappresentate da una confezione di succo di frutta con latte. Però bio.
Nel commercial, una casalinga entra in cucina, con un sacchetto della spesa che deposita stancamente sul tavolo. L’ambiente è piccolo, claustrofobico come in una stanza della RDT; ci fa pensare al microcosmo di Good Bye, Lenin! La ripresa è fissa, statica, come negli esordi delle tv di quartiere. La casalinga sente lo squillo di un telefono che proviene dal sacchetto. Prende una scatoletta di sardine e l’avvicina all’orecchio: è il “telefonino” da cui proviene lo squillo. Entra in scena il marito, burbero, che la guarda severamente e le impone, senza dire una parola o almeno buongiorno, con un gesto sbrigativo, di dargli la preziosa scatoletta di sardine. L'idea è infantile e la scenetta atroce, almeno per il fatto che i soci Coop vengono percepiti come visionari, stravaganti, un po’ instupiditi dal logorio della vita moderna.
È strano che la “rivoluzione” di una presunta liberalizzazione e maggiore concorrenza nei servizi della telefonia mobile venga annunciata, attraverso la sottocultura dei cibi pronti e delle conserve, in modo così dimesso, triste, sottotono. È deludente che Coop si rappresenti in modo così sciatto, senza neanche differenziarsi - sul piano dell’informazione, dove si limita a suggerire di “scoprire” CoopVoce nei punti vendita, neanche fosse una caccia al tesoro - dalle banali commediole pubblicitarie degli altri operatori. Ma la forma stravagante rivela la debole sostanza: la “novità” non ha portato niente di rivoluzionario. Del resto, sembra impossibile che i gestori della telefonia - a cominciare da Tim - rinuncino ai loro privilegi, tra cui quello di spremere off limits gli utenti: difficile, in questo contesto di vacche grasse, che un operatore virtuale faccia meglio dell’esoso gestore. Se questo, poi, è l’effetto delle liberalizzazioni di Bersani, segnalategli tutta la vostra delusione. Sempre che sia raggiungibile, e a meno che non vi risponda un segnale di occupato: la Coop sei tu... tu... tu...

QUANDO COOP LA SA LUNGA.
E poi abbiamo visto il film Come l'ombra all'Anteo di Milano...
La trama del film di Marina Spada, così come l'abbiamo letta prima di andare al cinema: " Claudia vive sola a Milano, dove attende un'occasione. Di giorno lavora in un'agenzia di viaggi e la sera studia russo. Attratta dal suo nuovo insegnante ucraino lo invita a cena e tenta un approccio. Boris, scostante e misterioso, si sottrae al suo bacio maldestro, rendendosi poi irreperibile. Alla vigilia della partenza estiva per la Grecia, l'uomo si affaccia nuovamente nella sua vita per chiederle di ospitare qualche giorno la cugina Olga, che viene dall'Ucraina. Le loro solitudini si trasformeranno in un'amicizia profonda. Un fatto tragico e inaspettato la spingerà finalmente ad agire".
E dài, dài, cúnta sú, insomma il film racconta una storia di solitudine a Milano. Si è detto che il cinema di Spada "è un cinema di silenzi, di tempi meravigliosamente morti, di riti e gesti ripetuti". Vero. Tanto che all'inizio, con quell'inquadratura interminabile e fissa sul grigio di Milano, ci è venuto da scappare via. Poi, se pensi che hai pagato il biglietto e ti armi di molta pazienza, il film diventa anche interessante. E siccome il terzo personaggio di questo film è proprio Milano, dopo la proiezione ti pulsa nel cervello una domanda angosciante: "Che ci faccio qui?". Ma non è la Milano di facciata della Moratti col tailleurino verdolino: è il vero paesaggio urbano globalizzato della solitudine, squallido, di un ammasso di strade e cemento in cui è difficile per una persona mentalmente sana integrarsi, condividere.
Ma c'è una cosa curiosa che ci ha colpito. Nelle riprese, nello squallore del paesaggio, schizza spesso l'insegna dell'Esselunga. Si dirà: per forza, perché la protagonista abita davanti a quel supermercato. Poi leggiamo, in una recensione, che "come nel cinema di Antonioni, la donna diventa il filtro della crisi, capace di recepire l'inquietudine dei tempi e di farsi carico della consapevolezza della solitudine e dell'incomunicabilità delle relazioni umane. Quelle che esistono dietro le nostre finestre, lungo i binari delle stazioni metropolitane, tra le architetture decadute della città, sotto le insegne luminose dell'Esselunga".
Alla fine, non ne viene bene Milano, certo, ma neanche l'Esselunga, poverina. Poi, alla fine del film, nei titoli di coda, tra i ringraziamenti eccetera, scorgiamo una coop. Ma sarà un caso? Ah beh, sì beh.

I BISOGNI DEGLI ITALIANI.
Abbiamo visto un annuncio. Sa l'ha vist cus'è? Insomma, abbiamo visto un annuncio stampa...
Si parla molto di pensioni. Ma si parla anche di fondi pensione. Nel mese di giugno, gli italiani si sono impegnati nella scelta della destinazione del TFR: scelta difficile, perché significa scommettere sul benessere futuro. Non tutti hanno letto La pensione tradita di Beppe Scienza (Fazi Editore), e così gli italiani inconsapevoli del fatto che un onesto gruzzolo lo si può ottenere anche stando fermi, cioè tenendo il Tfr in azienda, sposteranno una bella somma di denaro nell'industria del risparmio gestito e nei fondi pensione dei sindacati, "gli unici", secondo Beppe Scienza, "a essere matematicamente certi di trarre vantaggio dal trasferimento del Tfr alla previdenza integrativa dei fondi pensione"".
Comunque, in questo periodo, sono molti i money managers e le società finanziarie impegnati ad attirare l’attenzione dei lavoratori, anche attraverso la comunicazione pubblicitaria. Tra le tante proposte, abbiamo notato questo annuncio per la promozione di un fondo pensione aperto di Arca Sgr comparso sulla stampa quotidiana e prodotto dall'agenzia Armando Testa. L'headline dice: “Se così tanti italiani ci affidano il loro TFR, è perché abbiamo una soluzione per tutti”. Curioso il visual, dove la moltitudine di italiani viene rappresentata dalla moltiplicazione di un simbolo conosciuto in tutto il mondo: l’omino che, nei luoghi pubblici, generalmente indica la toilette. Sarà un incolpevole riferimento ai nuovi “bisogni” degli italiani? Chissà.

LA PUBBLICITÀ COL CIECO? GIÀ VISTA.
Abbiamo visto lo spot della Alfa Brera. Una giovane donna con occhiali scuri procede dentro un elegante paesaggio urbano. La donna appare misteriosa. Cammina. Si ferma. Sorride mostrando un certo godimento. Sente, percepisce qualcosa di indefinito. Chissà, forse un odore, forse un suono, ma lo spettatore non percepisce il minimo rumore. Sinché si scopre che la giovane donna avanza col bastone dei ciechi, mentre vicino a lei transita un’elegante Alfa Brera, evidentemente dotata di buone sospensioni. Il commercial finisce con un semplice: “La bellezza si sente”.
La cosa buffa è che gli stessi direttori creativi di Alfa Brera - diversi anni fa, e in un’altra agenzia - avevano tenuto a battesimo un’altra pubblicità con dei protagonisti non vedenti: si trattava di una campagna stampa per Artemide, che fa lampade.
L’idea di sorprendere avvicinando un cieco a un oggetto d’uso quotidiano (come un'automobile, come una lampada) che necessita di un fruitore dotato del senso su cui ci basiamo maggiormente nella nostra percezione, cioè la vista, può piacere o meno. In ogni caso, che il déjà vu sia un evento tutt’altro che raro in pubblicità, lo sanno anche i ciechi. E - lo diciamo per evitare spiacevoli discriminazioni - probabilmente anche i sordi.

Riki, Tiki e Tavi