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Discorso quasi breve, e alla fine vanitoso, sulla caricatura e l'estetica del brutto

Questo pezzo costituiva l’introduzione a una mostra di caricature, poi ampliata e aggiornata per un librone di un famoso pubblicitario con la passione del disegno caricaturale. Non sono un grande esperto, perciò qui esprimo delle opinioni abbastanza personali; mi sono comunque comodamente appoggiato agli studi di chi è più esperto di me. Diciamo che sono un amatore del genere; certo, del disegno in senso largo, in accordo con coloro che prima del XVII secolo intendevano il disegno come "fondamento dell'arte”, ma soprattutto del disegno satirico. A proposito, ignoravo che la Sardegna producesse satira, sino a quando ho letto un articolo scritto nel 2008 da Bepi Vigna, divulgatore e studioso del fumetto, oltre che importante autore dell’editore Bonelli, innanzitutto con Nathan Never: “Nutrito anche il numero di disegnatori sardi che, a partire dagli anni Settanta, si dedica alle vignette satiriche su quotidiani e riviste: sono da ricordare almeno Franco Putzolu su L’Unione Sarda, Gef Sanna su La Nuova Sardegna, Mariano Congiu su TV Sorrisi e Canzoni, Gaspare Giua su Linus”. Beh, forse quattro persone non fanno un “nutrito gruppo”, ma va bene così. Comunque, per ritornare al nostro pezzo, sebbene sia stato pubblicato nel 1997, credo che contenga alcune osservazioni ancora attuali: lo ripropongo come piccolo omaggio a un’arte considerata, chissà perché, marginale, se non “povera”.

(Pubblicato per la prima volta nel 1997 e poi riportato sul blog il 12 ottobre 2006) Mio figlio è nato quando lavoravo, come copywriter, nella più nota agenzia pubblicitaria italiana (ma in realtà era americana). La mattina seguente a quel caldo giorno agostano, un fattorino bussò alla mia porta: mi consegnava due pupazzi di pelouche, destinati al bimbo. Uno, di taglia media, era accompagnato da un biglietto di auguri dell’amministratore delegato, per cui non avevo mai nutrito grande simpatia (uomo sfortunato, venne arrestato e condotto in cella a San Vittore, insieme ad altri importanti personaggi della pubblicità italiana, accusati tutti di violazione alla legge sul finanziamento dei partiti, quando scoppiò lo scandalo delle tangenti per la campagna Aids promossa dal ministero della Sanità); l’altro, un coniglio di taglia gigantesca, era accompagnato da un biglietto di auguri firmato dal presidente, Gavino Sanna, e dalla sua futura moglie, Lella. Il primo è finito subito in qualche angolo buio della cantina; il secondo si trova ancora, a otto anni di distanza, nella cameretta di mio figlio. Si chiama, l’abbiamo chiamato, nonno Ugo (perché già il primo pupazzo di Alessandro, un coniglietto di stoffa ereditato dalla mamma Maria Pia, si chiamava Hug, ma il termine "abbraccio" era stato tradotto nell'inglese maccheronico Ugo): è grande, è veramente ingombrante, e non posso fare a meno d’inciampare in quel mostro, ogni volta che entro nella camera di mio figlio per testimoniargli la mia simpatica presenza.
Insomma, questa maldestra introduzione, tutta giocata sulla prima persona, serve per dire che, Gavino, io lo conosco abbastanza bene: è una conoscenza “ingombrante”. E allora, come posso parlarne? Provo un certo imbarazzo. Dopo tanti anni di stretta collaborazione pubblicitaria (ma non solo: per frequentare Gavino, bisogna essere ben disposti a parlare di tutto: da Topolsky alle patate fritte, da Richard Galliano alla serie C2 girone A, da Longanesi a Frank Stella; e bisogna adeguarsi ai silenzi: noi, per esempio, non ci siamo parlati per anni), conosco i suoi grandi difetti (ma questa è una questione personale) e le sue grandi qualità (e questa è una questione pubblica).
Ora, dovrei parlare dei suoi disegni. Bene. Ma vorrei cominciare con una domanda. Voi che avete appena visto la sua mostra, e il catalogo della mostra, forse vi siete chiesti: perché non ricordo di aver visto le caricature di Sanna in un grande giornale (ammesso che esistano dei “grandi” giornali in un paese che non legge)? Se non trovate una risposta immediata, ve ne suggerisco una: perché Sanna è un disegnatore molto bravo. Pensate che, la mia, sia una battuta paradossale? Sì e no. Ma andiamo per gradi. E, tanto per cominciare, cerchiamo di definire il genere, magari ricorrendo a due o tre cose già dette o scritte da qualche altra parte.
Ricordo che, una volta, l’ineffabile Gavino domandò a David Levine, forse il caricaturista più famoso del mondo: “La caricatura è arte?”. E il candido Levine rispose: “Sì”. Tout court. Eppure, più che a un artista tradizionale (sia detto per inciso: io amo il disegno, ma non amo i quadri: li associo subito ai tappeti e alle statuine di Capodimonte), il caricaturista mi fa pensare a un chirurgo, vivisettore sino alla crudeltà più puntigliosa: tende a rifare la faccia al personaggio, come un chirurgo estetico, che tra chirurgia plastica, protesi, lipoaspirazione, crea una nuova silhouette che rivela l’identità “ideale” - ma non per questo più “bella” - del personaggio. Di più: Levine, Grossman, Garretto - e tutti i grandi caricaturisti - come Freud, Fromm, Reich? In fondo, il caricaturista ci dà un’interpretazione dei vari tipi umani attraverso un lavoro simile a quello dello psicanalista: un terapeuta che indaga l’anima del paziente, che scopre una coscienza fatta di luci e di ombre, così come di chiaroscuri è fatto il disegno. Un disegno fatto di economia grafica, perché l’aspetto ludico della caricatura è dato anche dal suo “carattere regressivo infantile”: la stravaganza deformante, l’alterazione figurativa, la degradazione caricaturale, tutte caratteristiche presenti anche nei disegni di Sanna, sono riconducibili al disegno infantile; che non significa “semplicismo”.
Anzi, la storia della caricatura è ricca di nomi difficili ed esemplari: dall’estetica del brutto leonardesca, alla produzione “minore” del Tiepolo, Annibale e Agostino Carracci, il Guercino, Pier Leone Ghezzi, Charles Philipon... E azzardo: anche Leopardi era un involontario “caricaturista”. In uno sfogo epistolare, l’autore della Ginestra arrivava a scrivere: “Ieri fui da Cancellieri, il qual è un coglione, un fiume di ciarle, il più noioso e disperante uomo della terra”...
Splendido “disegno” caricaturale. E povero signor Cancellieri. E splendidi caricaturisti erano i giovanotti di Recanati, che al Poeta restituivano pan per focaccia, quando gli cantavano: “Gobbus esto/ fammi un canestro/ fammelo cupo/ gobbo fottuto”. Perché la satira, la caricatura, presuppongono anche un botta e risposta, un dare e avere, un “chi di spada ferisce, di spada perisce”: la polemica. E, come scriveva il cavalier Carlo Muscetta, “polemizzare presuppone un ideale, una fede in questo ideale, e un avversario a questa fede”.
Qual è l’ideale di un caricaturista? Il ritratto che accentua e deforma i tratti caratteristici di un personaggio - attraverso l’iperbole, il paradosso, l’allegoria - nasce da una vena critica, e serve per scoprire e rivelare la natura umana più occulta del personaggio: toglie la maschera all’uomo pubblico, ne rivela i vizi. Classico è l’esempio di William Hogarth, virulento pittore, illustratore satirico vissuto in un’epoca lontana (1697-1764). Il suo stile asciutto e pungente descriveva benissimo la commedia quotidiana. Vedi Hogarth e conosci la vita pubblica e privata del Settecento: miserabili prostitute e aristocratici parrucconi, magistratura corrotta, clero ricco di elemosine, squallida miseria degli oscuri vicoli londinesi, e tutte le figurine del grasso Potere. Insomma, un po’ (giusto un po’) come succede, oggi, nei terribili e classici quadretti di Mannelli.
Il caricaturista fornisce la carta d’identità di un personaggio, e di un’epoca. In fondo, la tecnica del un caricaturista è simile a quella di chi compone un identikit: condensa i tratti salienti. Da una caricatura potrete immaginare statura, peso, carattere, gioie e tormenti, profumi e puzze, sentimenti e reconditi pensieri di un uomo. Non a caso, lo storico della fotografia Ando Gilardi ha scritto che il più celebre identikit appartiene alla pittura: è quel volto di Dante Alighieri - famosissimo - ricostruito da Raffaello Sanzio, dipinto nella stanza della Segnatura, nei palazzi Vaticani. Non si sa quanto preciso sia l’”identikit” realizzato da Raffaello, che esaltò i tratti supposti per amplificare la possibile rassomiglianza. Cioè, quel ritratto era, è una caricatura (“nel senso migliore e artistico della parola”, precisa Gilardi). E così, caricaturale è la qualità di ogni identikit pittorico, manuale.
Possiamo considerare la caricatura come una forma di identikit? Sì, quando riprende l’estetica di una certa fotografia criminale-segnaletica-giudiziaria: quella foto da casellario giudiziario - di fronte e di profilo, luce piatta - fissa le forme “non solo visibili, ma esatte e scientificamente utilizzabili” di una persona. E qui siamo alla fisiognomonia: scienza o arte, empirismo o magia, cerca di interpretare il carattere di un individuo dall’aspetto esterno.
Il caricaturista è una specie di fisiognomo? Insomma, mi piacerebbe che i caricaturisti venissero chiamati con un altro nome. Caricaturista deriva da carro e caricare. E, invece, i disegni di molti caricaturisti, compresi quelli di Gavino, sono il contrario della pesantezza. Nascono all’insegna della “leggerezza”, che non significa vaghezza: il faut être leger comme l’oiseau, et non comme la plume. Perché il disegno è questo: è il mondo di una mobilissima fantasia. Se la parola è irreversibile, come diceva Barthes, il disegno è “reversibile”: può essere “rovesciato” dalla fantasia di chi lo vede e interpreta.
Purtroppo, i lettori dei giornali italiani sono sempre meno abituati al disegno: la fotografia offre una comunicazione più comoda e veloce. Ma il disegno lascia più libertà di lettura, offre un dialogo intelligente e stimolante con il lettore. E non importa lo stile. Si può essere spettrali quanto Charles Addams, feroci quanto William Hogarth, stranieri gentili e visionari quanto Saul Steinberg, incisivi quanto Gavino Sanna; si possono avere stili differenti, ma c’è una sola cosa che accomuna i bravi disegnatori: l’arguzia grafica; che, per realizzarsi compiutamente, ha bisogno di un minimo di libertà (di pensiero) e della capacità di sorridere. Semplicemente.
Ecco, siamo arrivati alla libertà di pensiero. Per parlare di giornali. Ricordate? Ho esordito scrivendo che Sanna è tanto bravo, ma così bravo, che non vedrete una sua caricatura pubblicata in un “grande” giornale. Perché? Per colpa di qualche equivoco.
Uno di questi equivoci, l’ho trovato nella presentazione di un libro di caricature di Gavino: quando il buon Veltroni, per parlare di Sanna, tira in ballo i caricaturisti di piazza Navona. Lo fa affettuosamente, ma nello stesso tempo rivela un’ignoranza comune a molti facitori di giornali (Veltroni è stato direttore di un giornale): la caricatura è considerata un genere minore, eccettuato l’etereo, impalpabile, celebratissimo Pericoli. E così, se andate a cercare dei disegni nei giornali italiani (a parte qualche eccellente autore), troverete soprattutto vignette: per intenderci, quei brutti disegni con delle battute dentro una nuvoletta, che spesso, per disgrazia dei nostri occhi, finiscono persino nelle prime pagine.
Strano Paese, il nostro. In Inghilterra, il signor Kevin Kallaugher, americano, diplomato all'Harvard College e giocatore di basket, si sfamava disegnando caricature a Trafalgar Square, quando venne pescato e poi assunto da The Economist, dove diventò il grande Kal, cioè il primo cartoonist nella storia della rivista. E a casa nostra, che succede? Purtroppo, i direttori italiani, alle piazze romane, preferiscono le terrazze. (Ma ho l’impressione che i giornali italiani siano in ritardo su tutto, tanto che mi viene in mente una vicenda recente, che mi ha dato molto da riflettere. Mi riferisco alla donna proprietaria di un negozio a Niscemi, vittima del racket, a cui avevano già ammazzato il marito e il figlio, e che si è tolta la vita: perché non ne poteva più della presenza del racket, e dell’assenza dello Stato. Ebbene, il giorno seguente, il mitico giornale La Repubblica ha pubblicato “l’ultima intervista” alla signora, realizzata da una solerte giornalista olandese. E mi sono chiesto: perché quell’ultima intervista è stata realizzata da un olandese, e non da un italiano? E mi sono dato una risposta: perché, probabilmente, i giornalisti italiani non erano a Niscemi, ma al festival di Gargonza).
Ma oltre la micidiale abitudine a non scoprire, a non utilizzare, nuovi talenti, nei giornali italiani si è creato un grande equivoco: se prendete in esame la schiera dei vignettisti più famosi, vi accorgerete che pochi sanno disegnare. Sono, più che altro, dei battutisti. (Per carità, niente di male: anche Woody Allen ha cominciato come battutista; sì, però dalle battute è passato ai fatti). Forse soltanto Altan ha trovato un genere eccellente; ma, tra autore e lettore, si è creata troppa complicità: se domani scrivesse “cacca”, punto e basta, rideremmo per inerzia, perché l’ha scritto Altan.
Perché si è creata questa situazione? Perché, evidentemente, i giornali italiani hanno dei mediocri art director, responsabili dell’immagine. Al contario di quanto succede, per esempio, negli Stati Uniti, dove si contendono i più bravi art directors, dove esistono delle scuole, dove esiste una grande tradizione, dove si creano addirittura delle mode o tendenze: ieri, gli art di New York; oggi, quelli del Midwest. Ma anche il resto dell’Europa non è messo male. Noi, quando arriveremo a contenderci gli art director di Pinerolo o di Carugate, vuol dire che vivremo già su Marte.
Intendiamoci: io amo la carta stampata. Ma non amo i tradimenti. E, come lettore, mi sento spesso tradito, o deluso. In più, per esperienza personale, conosco certe cattive abitudini. Nelle collaborazioni o nelle assunzioni, si tende a fare gruppo; spesso, non si inseguono veri talenti, nuovi esperimenti, nuove tendenze, ma gradi di amicizia e parentela. È la legge del clan: la sicurezza della sodalità è meno rischiosa dei ragionamenti e delle analisi. Eppure, se fossi al posto del direttore di un giornale, mi chiederei: quante buone ragioni ha, un cittadino italiano, per comprare il mio giornale ogni mattina, ogni settimana, ogni mese?
Si dirà: tra queste buone ragioni, c’è anche quella del buon gusto, del senso estetico? Beh, non è il caso di esagerare. Se gli italiani leggono sempre meno, le cause sono tante, ma il motivo più evidente è che l’Italia è un paese di analfabeti. Però, è anche vero che un’art direction incisiva non rende soltanto più “bello” e piacevole un giornale, ma ne semplifica e migliora la lettura. Non so se ai lettori italiani importi molto o poco di art direction, e se la maggioranza dei lettori sappia o possa percepire la differenza tra brutto e bello. Ma so di non aver mai conosciuto qualcuno che abbia affermato: la Primavera di Botticelli fa schifo. Né (si parva licet componere magnis: senza offesa per Botticelli, senza offesa per Gavino) conosco qualcuno che abbia affermato: le caricature di Sanna fanno schifo. Semplicemente, non fanno “ridere” come dovrebbe far ridere una vignetta dei mediocri Giannelli o Forattini o Ellekappa o Pincopallino. Ma, come disse una volta Kal, “il compito del disegnatore satirico non è far ridere, ma far pensare”.
Ecco il grande equivoco: anni di pessimi disegni (molti neo-vignettisti hanno pensato che bastasse disegnare male, che so, come Vincino per arrivare a pubblicare sul Corriere della Sera) e di battute che durano un respiro, ci hanno fatto dimenticare un grande piacere: godere di un bel disegno, un disegno che solleciti la nostra libertà di pensiero. Tanto per puntualizzare: sapevate che certi disegnatori italiani lavorano più all’estero che in patria? Inutile spiegarvi perché: se avete avuto la pazienza di leggere queste note, avete già capito perché.
Noi italiani siamo spreconi: sprechiamo talenti. Ma è anche vero che, spesso, i nostri talenti nascono per caso. Beh, è anche vero che le nostre scuole non aiutano; anzi, se penso alla condizione di vecchio apparato burocratico dei nostri licei artistici, direi che può sviluppare talento soltanto un eroe solitario: una Milano asfittica può celebrare in pompa magna l’arte del newyorkese Jean-Michel Basquiat (morto giovane), ma nello stesso tempo promette la galera ai giovani indigeni writers e graffitari; eventualità auspicata, in un’intervista a Repubblica, anche dal sarto Armani. In galera, così, di botto, come se pasticciare un muro fosse un reato che mette in pericolo la sicurezza pubblica? In galera, così, senza più il beneficio della sospensione condizionale della pena o di sanzioni sostitutive delle pene detentive, tipo la semilibertà o la detenzione domiciliare? In galera! In galera! Quasi un’invocazione biblica (che mostruosità generalizzare così sui giovani, signor Armani; è come se io dicessi: mandiamo in galera quei finocchi degli stilisti. Ma si rende conto?).
Ma dicevamo dei talenti. Prendiamo Gavino Sanna: è un bravo art director, è stato un eccellente direttore creativo, la sua fama di pubblicitario - caso unico in Italia - ha varcato i confini nazionali. Eppure si intestardisce a disegnare caricature. Lo fa da quarant’anni, e noi ce ne accorgiamo per caso. O no?
Beh, chiariamo almeno la mia posizione: io me ne sono accorto da tempo. Anzi, credo di dovere proprio a questa conoscenza un certo salto di qualità nei miei disegni (perché anch’io sono un disegnatore per caso), che mi ha portato a delle collaborazioni stimolanti, e penso innanzitutto a Linus, la rivista storica del fumetto.
Per diversi anni, ho osservato Gavino al lavoro. Gavino non disegna: incide. Prepara il disegno con dei tratti veloci di matita, poi prepara gli strumenti, come un grosso pennarello che maltratta e torchia e sfalda: ne fa un pennello. E poi incide il foglio, con un tratto regolare, spigoloso, bene impaginato e armonizzato. Da questo lavoro, vengono fuori dei veri marchi: potete ridurre le sue caricature sino alla dimensione di un francobollo, potete farne un negativo, ma la leggibilità sarà sempre eccellente.
Ma un’altra specialità di Sanna sono i bozzetti: i piccoli disegni realizzati velocemente anche con mezzi di fortuna, una biro, un tovagliolo, un ritaglio di carta. Sono ritratti meno ragionati, più estemporanei, che richiedono una mano e un’abilità veramente felici. E, nella sua produzione, questi sono i disegni apparentemente più “poveri”, ma infinitamente più colti, da caffè letterario. Tanto che io conservo certi suoi rough realizzati per campagne come Artemide, Valfrutta o Versace. I rough sono il progetto grezzo, i primi schizzi che visualizzano l’idea pubblicitaria, il primo passo che porta, generalmente, a una campagna da uno, da cinque, o magari da venti milioni di dollari di investimento (lo sottolineo soltanto per quantificare l’importanza di quelle idee piccole piccole - ma, credo che l’abbia detto Bill Bernbach, un’idea, perché sia una buona idea, deve essere anche spiegata in breve: deve stare in un biglietto da visita, o in una bustina di Minerva. Per intenderci, come la teoria della relatività e la sua conseguenza espressa nella formula-chiave che sancisce l’equivalenza tra massa ed energia: E=mc2).
Come sanno i sassaresi, i disegni di Sanna compaiono, da quarant’anni, in un giornale molto vivace e agguerrito come Sassari Sera. Ma raramente sono stati ospitati da giornali più “importanti” (e qui, per “importanza”, si intende la dimensione e la diffusione, che, a volte, sono inversamente proporzionali al valore reale). Ed è un vero peccato che un pubblico più vasto non possa goderne. Ma, come abbiamo già tentato di spiegare, in Italia manca una vera cultura dell’immagine; e il vuoto è stato indebitamente riempito dall’ebetismo televisivo (è così che ci siamo ridotti, a un popolo di flaccidi guardoni dello spettacolino serale di intrattenitori più o meno noti: il museo delle sere).
In Italia, quello del disegnatore a tempo pieno è un mestiere ingrato e spesso mal pagato (e mi riferisco al mercato dell’editoria; perché quello della pubblicità, invece, utilizza veri professionisti, non figli nipoti amici cognati amanti, e dà un giusto prezzo al talento). E se i giornali a più larga diffusione offrono spazi minimi, i giornali specializzati in grafica, satira e fumetti chiudono o annaspano. Si dice: il fumetto è in crisi. E mi sembra di sentire Quelo, il personaggio mistico-esaltato di Corrado Guzzanti, che si nasconde dietro il paravento del luogo comune: “C’è crisi”. Ma cos’è questa crisi? Lo cantava Rodolfo De Angelis settant’anni fa, e da allora le cose non sono cambiate: la vera crisi è quella delle competenze.
Ogni tanto vedo un mio amico sardo, Mario, un bravo e simpatico disegnatore che vive e lavora a Milano. E mi aggiorno. È il mio Caronte, il mio traghettatore, il mio Virgilio che mi porta virtualmente a spasso nelle stanze-albergo dei giornali (che io non frequento). Lui ha un agente, e gira per redazioni e agenzie con la sua cartelletta, tra art directors che seminano i suoi disegni sul pavimento per osservarli dall’alto, tra direttori (questa è l’ultima tendenza) che vorrebbero “qualcosa tipo il New Yorker”. Ma come, dico a Mario, prendono come esempio un giornale così antico e, non a caso, pieno di debiti? Aveva proprio ragione Luigi Berlinguer, quando diceva che “il liceo classico ci ha corrotti”.
Ma queste sono storie di disegnatori. Rivendicazioni e cattiverie di matite appuntite. Voi che, invece, state sfogliando (magari a sbafo) un bel libro di caricature, godetevelo: non ci resta che ridere. Perché, come ha detto Arrigo Sacchi (o come direbbe Lucia Annunziata): “Non abbiamo rimasto altro”.

Questo pezzo è stato pubblicato molti anni fa. Che cosa è cambiato? Certo, abbiamo visto i disegni di Sanna su qualche giornale importante, ma continuano a citarlo come uno dei più grandi pubblicitari italiani, non come caricaturista. Mario continua a girare. L’art director che seminava i disegni sul pavimento ha fatto carriera e ha conquistato un ruolo di responsabilità in un noto periodico del gruppo Repubblica-Espresso (passato in seguito a un altro padrone, che di certo non ha migliorato le cose). E intanto i giornali italiani vendono sempre meno copie, e gli illustratori continuano a soffrire. 

Nemo propheta in patria, dicevano gli antichi romani, che la sapevano lunga, elaborando una leggendaria e stizzosa delusione di Gesù (“nemo propheta acceptus est in patria sua”) a Nazareth: del resto, cosa poteva aspettarsi dagli abitanti sempliciotti e scettici di quell'insignificante villaggetto agricolo? Però, i romani la sapevano lunga, ma non così tanto da prevedere che 2000 anni più tardi la penisola italiana avrebbe ospitato una popolazione in cui il 30% dei cittadini tra i 25 e i 65 anni è analfabeta funzionale, con limitazione nella comprensione, lettura e calcolo. Questo vuol dire - sempre attenendosi alla statistica, al calcolo delle probabilità e alle massime popolari importate dalla Galilea - che non è improbabile, anzi è possibile che anche nei giornali abbia dei limiti di comprensione chi raggiunge, per propri meriti o per vie traverse, un ruolo di responsabilità come art director o picture editor.

Faccio un esempio. Mio figlio (beh, sì, ne è passato di tempo da quella prefazione: nel frattempo è diventato grande) ha due amici che hanno un affermato studio di motion graphic a Milano. Gente cazzutissima, che infatti lavora e produce senza sosta, con competenze che vanno dall’UX/UI design alla progettazione in 2D e 3D. Figura professionale altamente specializzata, quella dei motion graphic designer. Eppure, uno di loro ha un desiderio semplice, più che un’ambizione: dedicarsi anche all’illustrazione per l’editoria. E così invia i propri lavori a una miriade di giornali italiani, da cui non ottiene nessuna risposta, neanche un grazie o un crepa. Alla fine, malgrado la delusione, il professionista milanese allarga gli orizzonti e prova con l’estero, inviando il proprio portfolio al New Yorker, che, al contrario dei giornali italiani, ringrazia (innanzitutto) e pubblica. Ma non basta, pubblica anche su Guardian, New York Times e altri giganti internazionali dell'editoria. Risultato: soltanto dopo quelle pubblicazioni, gli cominciano ad arrivare numerose proposte di collaborazione anche da quei giornali italiani che l’avevano ignorato del tuttto. Diciamo, per imitazione.

Morale? Beh, vedete un po’ voi. Per me potrebbe bastare il passaggio di una canzone civile come Povera Patria di Franco Battiato quando dice: “Non cambierà, non cambierà. No cambierà, forse cambierà”. Appesi in eterno tra incertezza e speranza di un cambiamento in un paese che non funziona. E che forse non funzionerà mai.

G. G.